Il Diritto dell'Unione EuropeaEISSN 2465-2474 / ISSN 1125-8551
G. Giappichelli Editore

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La natura poliedrica del principio della tutela giurisdizionale effettiva ai sensi dell'art. 19, par.1, TUE (di Maria Eugenia Bartoloni, Associato di Diritto dell’Unione europea, Universitàdella Campania "Luigi Vanvitelli")


In un recente filone giurisprudenziale, la Corte ha sancito, in termini lapidari, che l’art. 19, par. 1, TUE, allorché affida l’onere di garantire il controllo giurisdizionale nell’or­dinamento giuridico dell’Unione non soltanto alla Corte, ma anche agli organi giurisdizionali nazionali, «concretizza il valore dello Stato di diritto affermato all’articolo 2 TUE». Alla luce di questa giurisprudenza, l’A. sostiene che il ruolo riservato dai Trattati ai giudici nazionali in funzione della tutela dei diritti abbia acquisito una dimensione differente, ed in parte inedita, rispetto a quella di integrare, in veste di “giudici dell’Ue”, le lacune del sistema giurisdizionale disciplinato dai Trattati e di cooperare con la Corte di giustizia alla corretta applicazione del diritto UE. Il principio incorporato nell’art. 19 non sarebbe più, e soltanto, una manifestazione, pur ragguardevole, del principio di leale collaborazione, ma assurgerebbe ad elemento sistemico dell’ordi­namento dell’Unione. L’articolo esplora dunque questa duplice dimensione normativa del principio da una prospettiva tecnico/giuridica ed esamina le conseguenze che ne scaturiscono per gli Stati membri.

The Multi-faceted Nature of the Principle of Effective Judicial Protection within the Meaning of Article 19(1) TEU

In recent case-law, the ECJ has held, in lapidary terms, that Article 19(1) TEU, when it entrusts the responsibility for ensuring judicial review in the EU legal order not only to the ECJ but also to national courts and tribunals, «gives concrete expression to the value of the rule of law affirmed in Article 2 TEU». In the light of this case-law, the A. argues that the function conferred on the national judges by Treaties to garantee legal protection has acquired a different dimension than that of cooperating with the ECJ for ensuring that in the interpretation and application of the Treaties the law is observed. The principle set forth in Article 19(1) would be not only a manifestation of the principle of sincere cooperation, but it would also be a structural element of the EU legal order. This paper explores this dual normative dimension of the principle from a technical-legal perspective and examines the issue of what any consequences might be for the Member States.

KEYWORDS: Principle of effective judicial protection – Article 51(1) of the Charter – ‘Fields covered by Union law’ – Rule of Law – Principle of sincere cooperation

SOMMARIO:

I. Premessa. - II. La natura poliedrica del principio incorporato nell’art. 19, par.1, comma 2, TUE: come conseguenza del principio di leale cooperazione; come presupposto della membership all’UE. - III. La differente sfera applicativa delle due nozioni alla luce delle indicazioni della Corte. - IV. La nozione di "attuazione" ai sensi dell’art. 51, par. 1, della Carta. - V. La nozione di "settori disciplinati dal diritto dell’Unione". - VI. Nozioni analoghe, metodi di rilevazione diversi. - VII. Considerazioni conclusive. - NOTE


I. Premessa.

In un recente filone giurisprudenziale, culminato da ultimo nella sentenza resa nella causa Commissione c. Polonia [1], il principio che impone agli Stati membri di prevedere un sistema di rimedi e di procedimenti atti a garantire il rispetto del diritto fondamentale ad una tutela giurisdizionale effettiva ha assunto un rilievo così pronunciato nell’argomentazione giuridica, tale da poter essere considerato la “chiave di volta” per una nuova tappa del processo costituzionale europeo [2]. Non che il principio incorporato nell’at­tuale art. 19, par. 1, comma secondo, TUE non avesse già da tempo manifestato le sue potenzialità applicative, né che la Corte se le fosse lasciate sfuggire. Al contrario, è noto, ad es., che l’art. 19 TUE è stato utilizzato per “integrare” il sistema dei rimedi giurisdizionali previsti nei Trattati. Questi ultimi, infatti, pur qualificati dalla giurisprudenza “completi” [3], necessitano, nonostante ciò, di essere affiancati dalle garanzie apprestate negli ordinamenti nazionali, con il risultato che «è compito dei giudici degli Stati membri, […], garantire la tutela giurisdizionale dei diritti di cui i soggetti del­l’ordinamento sono titolari in forza del diritto dell’Unione» [4]. Tuttavia, e nonostante il pronunciato rilievo che assume questa giurisprudenza, soltanto dalla sentenza Associação Sindical dos Juízes Portugueses [5] si ha la percezione che il ruolo riservato dai Trattati ai giudici nazionali in funzione della tutela dei diritti abbia acquisito una dimensione differente, ed in parte inedita, rispetto a quella di integrare, in veste di “giudici del­l’Unione”, le lacune del sistema giurisdizionale disciplinato dai Trattati e di cooperare con la Corte di giustizia alla corretta applicazione del diritto UE. Il principio incorporato nell’art. 19 non sarebbe più e soltanto una manifestazione, pur ragguardevole, del principio di leale collaborazione [6], ma assurgerebbe ad elemento sistemico dell’ordinamento dell’Unione. Nella sentenza ASJP, ripresa da ultimo da Commissione c. Polonia, la Corte ha infatti sancito, in termini lapidari, che l’art. 19 TUE, allorché «affida l’onere di garantire il controllo [continua ..]


II. La natura poliedrica del principio incorporato nell’art. 19, par.1, comma 2, TUE: come conseguenza del principio di leale cooperazione; come presupposto della membership all’UE.

Il principio incorporato nell’art. 19, par. 1, comma secondo, TUE indica, come è noto, che «[g]li Stati membri stabiliscono i rimedi giurisdizionali necessari per assicurare una tutela giurisdizionale effettiva nei settori disciplinati dal diritto dell’Unione». In una prima e consolidata accezione, in assenza di regole dell’Unione dirette ad armonizzare il diritto processuale degli Stati membri, questa disposizione indica che la realizzazione processuale di posizioni soggettive del­l’UE va assicurata nel quadro degli strumenti di garanzia di ciascun ordinamento nazionale [11]. L’art. 19, par.1, è stato cioè ricostruito dalla giurisprudenza come una manifestazione specifica del principio di leale cooperazione. L’art. 4, par. 3, TUE, nell’imporre agli Stati generali obblighi di condotta privi di un contenuto materiale predeterminato, ma formulati sulla base di un nesso funzionale, presuppone infatti che gli Stati utilizzino le proprie competenze di natura processuale al fine di garantire l’efficacia al diritto UE. A tal riguardo, nella giurisprudenza è ricorrente l’affermazione secondo cui «spetta all’ordinamento giuridico interno di ciascuno Stato membro, in applicazione del principio di leale cooperazione, designare i giudici competenti e stabilire le modalità procedurali dei ricorsi giurisdizionali intesi a garantire la tutela dei diritti riconosciuti ai singoli in forza delle norme di diritto del­l’Unione» [12]. In questa prospettiva, se il dovere per gli Stati di garantire, attraverso il proprio sistema giurisdizionale, la tutela dei diritti conferiti dal­l’ordinamento UE altro non è che una manifestazione del principio di leale cooperazione, appare ragionevole affermare che l’art. 19 si impone agli Stati membri in conseguenza della loro partecipazione all’Unione, in virtù del patto di leale e reciproca cooperazione tra ente e membri. Dalla giurisprudenza più recente sembra però emergere anche una seconda accezione del principio incorporato nell’art. 19 TUE. Allorché la Corte indica, in una sorta di sillogismo giuridico, che «l’articolo 19 TUE […] concretizza il valore dello Stato di diritto affermato all’articolo 2 TUE», che «l’Unione si fonda su valori, come [continua ..]


III. La differente sfera applicativa delle due nozioni alla luce delle indicazioni della Corte.

Se il principio incorporato nell’art. 19 è dunque idoneo ad esprimere due differenti nozioni circa l’obbligo per gli Stati di garantire una tutela giurisdizionale effettiva, è anche ragionevole ipotizzare che a queste due nozioni corrispondano ambiti d’applicazione non necessariamente coincidenti, o alternativamente, che non siano omogenei i metodi per rilevare se una situazione o una norma nazionale rientri nel campo d’applicazione della previsione. Infatti, ancorché l’art. 19 indichi espressamente che il dovere per gli Stati di apprestare il proprio sistema di rimedi si imponga per garantire una tutela giurisdizionale effettiva «nei settori disciplinati dal diritto dell’Unio­ne», quest’ultima nozione potrebbe, a sua volta, esprimere sfere applicative differenti a seconda che l’obbligo scaturente dall’art. 19 sia visto come conseguenza della partecipazione all’Unione, oppure come presupposto di quella membership. Questa, d’altra parte, sembrerebbe essere la strada intrapresa dalla Corte allorché, in relazione all’art. 19, inteso nell’accezione di elemento sistemico dell’ordinamento UE, ha indicato, seppure in maniera un po’ criptica, che il suo ambito d’applicazione ratione materiae «riguarda “i settori disciplinati dal diritto dell’Unione”, indipendentemente dalla situazione in cui gli Stati membri attuano tale diritto, ai sensi dell’articolo 51, paragrafo 1, della Carta» [15]. Secondo la Corte, vi sarebbe dunque una sostanziale differenza tra la sfera applicativa dell’art. 19 – nella sua veste di presupposto del patto di fiducia – rispetto a quella dell’art. 19, nella differente veste di conseguenza di quello stesso patto. Nella prima accezione la sfera applicativa dell’art. 19 corrisponderebbe, in termini non meglio precisati, al complesso dei settori oggetto di regolamentazione da parte del diritto UE; nella seconda accezione, la sfera applicativa sarebbe determinata in riferimento ad un criterio di tipo “attuativo”, ai sensi dell’art. 51, par. 1, della Carta.


IV. La nozione di "attuazione" ai sensi dell’art. 51, par. 1, della Carta.

Per cogliere nella sua essenza la conclusione cui è giunta la Corte e per individuarne le implicazioni, sarà utile innanzitutto svolgere alcune considerazioni sul criterio utilizzato dall’art. 51 della Carta. Come è noto, il sistema di tutela dei diritti fondamentali fondato sulla Carta di Nizza vincola gli Stati membri, ai sensi dell’art. 51, par. 1, della stessa, «esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione» [16]. In una accezione restrittiva, la disposizione limiterebbe l’applicazione della Carta alle sole norme nazionali che costituiscono attuazione del diritto dell’Unione, nel quadro delineato dalla sentenza Wachauf [17]. È peraltro noto che la nozione di “attuazione” è stata interpretata, in conformità alla giurisprudenza precedente alla Carta dei diritti fondamentali [18], in termini molto generosi sì da includervi non solo le norme nazionali adottate allo specifico scopo di attuare obblighi europei, ma altresì qualsiasi misura che, instaurando una qualche forma di collegamento con il diritto UE, ricada nel suo ambito di applicazione [19]. La nozione di “attuazione”, in altre parole, sembra aver fatto spazio o, quantomeno, essere stata assorbita nella nozione più fluida di “ambito di applicazione” del diritto dell’Unione [20]. Alla luce di questa giurisprudenza, l’applicazione dell’art. 51 è innescata ogniqualvolta una norma nazionale, a prescindere dall’esplicito intento attuativo, entra nella sfera applicativa del diritto dell’UE, attraverso un collegamento specifico e apprezzabile che connetta la sfera nazionale a quella del diritto UE [21]. Lo schema appena descritto sembra pienamente applicabile allorché il dovere per gli Stati di apprestare una tutela giurisdizionale effettiva ai sensi dell’art. 19 viene configurato come manifestazione del principio di leale cooperazione, quindi come conseguenza della membership. In un’ipotesi del genere, la Corte si premura di verificare che la specifica norma processuale entri nella sfera applicativa del diritto UE attraverso un collegamento specifico e concreto la cui esistenza non può essere presunta, ma deve essere accertata caso per caso [22]. Nella maggior parte dei casi, il percorso [continua ..]


V. La nozione di "settori disciplinati dal diritto dell’Unione".

Come espressamente indicato nella giurisprudenza più recente, la sfera applicativa dell’art. 19 nella sua veste di elemento costitutivo non è invece collegata al criterio fatto proprio dall’art. 51 della Carta e, dunque, prescinde dal momento “attuativo”, inteso in senso ampio come idoneità della norma nazionale di transitare, attraverso un qualche fattore di collegamento, nel­l’ambito d’applicazione del diritto dell’Unione. Essa, piuttosto, «riguarda “i settori disciplinati dal diritto dell’Unione”» [31] o, come parafrasato dalla Corte in alcune sentenze, i «settori coperti dal diritto dell’Unione» [32]. Questa distinzione, all’apparenza netta e tranchant, pone in realtà non pochi problemi ricostruttivi. La questione preliminare riguarda la differenza che dovrebbe intercorrere tra la nozione rispettivamente di “ambito d’appli­cazione del diritto dell’Unione” e quella di “settori disciplinati dal diritto dell’Unione”/“coperti dal diritto dell’Unione”. Se non vi fosse alcuna differenza, infatti, la distinzione elaborata dalla Corte non avrebbe alcun senso. Per altro verso, se le due nozioni fossero invece diverse, la costruzione della Corte poggerebbe su basi poco solide. Sarebbe come dire che la sfera applicativa dell’art. 19 riguarda «i settori disciplinati dal diritto dell’Unione», indipendentemente dalla circostanza che una fattispecie o situazione si collochi nell’ambito d’applicazione del diritto dell’Unione. Sotto questa prospettiva, tuttavia, non sembra che le due locuzioni, al di là della formulazione letterale, esprimano concetti differenti. Ancorché si voglia ravvisare nell’espressione «settori disciplinati dal diritto dell’Unione» una nozione che corrisponde sostanzialmente alla sfera delle competenze materiali attribuite all’Unione [33], o, alternativamente, a quella delle competenze da questa esercitate [34] e, quindi, ad uno “spazio normativo” maggiormente circoscritto rispetto al complessivo “ambito d’applicazione del diritto dell’Unione”, proprio la Corte ha escluso una tale interpretazione. Nella sentenza Fransson, difatti, le locuzioni rispettivamente [continua ..]


VI. Nozioni analoghe, metodi di rilevazione diversi.

Quando la Corte distingue il criterio fatto proprio dall’art. 51 della Carta da quello invece utilizzato dall’art. 19 TUE si potrebbe invero pensare che non stia contrapponendo la nozione di “ambito d’applicazione del diritto dell’Unione” a quella di “settori disciplinati dal diritto dell’Unione”, ma si avvalga di un metodo differente per rilevare quando una norma nazionale innesca l’applicazione dell’art. 19, inteso come elemento sistemico, rispetto a quello usualmente utilizzato quando l’art. 19 è invocato nelle vesti di manifestazione del principio di leale cooperazione. In questa prospettiva, non sarebbero le due nozioni ad essere diverse, ma i metodi per rilevare quando una norma entra nella sfera applicativa dell’art. 19 inteso rispettivamente come presupposto o come conseguenza della membership. Conviene brevemente svolgere questa considerazione. Si è potuto osservare che, al fine di invocare l’art. 19 (nell’accezione di conseguenza), la situazione deve essere concretamente e specificamente collegata con il diritto UE. Così, soltanto in presenza di un nesso di connessione – che radichi in maniera concreta ed effettiva la fattispecie al diritto dell’Unione – una norma nazionale può essere vagliata alla luce della prescrizione che impone ai giudici nazionali di garantire una tutela giurisdizionale effettiva. Differente appare il metodo allorché l’art. 19 è invece invocato come ele­mento sistemico. Quando la Corte indica che «ogni Stato membro deve garantire che gli organi rientranti, in quanto “giurisdizione” nel senso definito dal diritto dell’Unione, nel suo sistema di rimedi giurisdizionali nei settori disciplinati dal diritto dell’Unione soddisfino i requisiti di una tutela giurisdizionale effettiva» [37], non richiede la sussistenza di una situazione concreta specificamente ed effettivamente connessa al diritto dell’Unione per sindacare la normativa statale alla luce dell’art. 19. Piuttosto, si accontenta di un nesso molto più blando dato dalla mera idoneità o capacità del giudice di pronunciarsi «su questioni riguardanti l’applicazione o l’interpretazione del diritto dell’Unione». Come esplicitamente affermato nella sentenza Commis­sione c. [continua ..]


VII. Considerazioni conclusive.

In conclusione, nei casi che potrebbero essere definiti ordinari – in cui cioè l’art. 19 viene in gioco come mera manifestazione del principio di leale cooperazione – è richiesta, coerentemente con il complessivo orientamento giurisprudenziale, la sussistenza di un link effettivo con il diritto del­l’Unione. È infatti logico che la soluzione di questioni specifiche, legate al­l’applicazione di singoli e, eventualmente, circoscritti strumenti nazionali di tutela, possa essere realizzata solamente in presenza di un collegamento con il diritto UE che non risulti meramente ipotetico. In assenza di un nesso che radichi la fattispecie concreta a situazioni tutelate dal diritto UE, non sarebbe infatti congruo sindacare norme nazionali alla luce di parametri UE. Il discorso sembra invece mutare qualora l’art. 19 venga in gioco in veste di elemento sistemico, in relazione cioè a questioni di carattere orizzontale o trasversale «che permeano di sé ogni elemento della funzione giudiziaria nazionale» [41]. In questi casi, in cui le misure adottate a livello nazionale riguar­dano, per definizione e in modo strutturale, l’intera funzione giudiziaria, l’indagine volta a rintracciare un collegamento concreto con il diritto UE avrebbe un rilievo assai limitato. In ipotesi del genere, infatti, non si tratta di verificare se uno specifico strumento sia idoneo a garantire una tutela giurisdizionale effettiva nel singolo caso; piuttosto di accertare se l’apparato giudiziario dello Stato membro soddisfi determinati parametri che gli consentano di garantire una tutela giurisdizionale effettiva nel suo complesso. Il sistema giudiziario degli Stati membri svolge infatti la funzione essenziale di «garantire la preservazione delle caratteristiche specifiche e dell’autonomia dell’ordinamento giuridico dell’Unione» [42]. Questa duplice dimensione dell’art. 19 si ripercuote anche sulla portata delle conseguenze che ne derivano per gli Stati membri. Nel primo caso, l’obbligo che ne discende è specifico e circoscritto perché investe una fattispecie determinata. Lo Stato dovrà, come emerge da una cospicua giurisprudenza, porre in essere singoli aggiustamenti di carattere normativo o interpretativo intervenendo sullo specifico strumento che compromette una tutela giurisdizionale [continua ..]


NOTE