Il Diritto dell'Unione EuropeaEISSN 2465-2474 / ISSN 1125-8551
G. Giappichelli Editore

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Caso Sea-Watch: il fermo delle navi potrebbe essere giustificato dal diritto dell'Unione europea (di Benedetta Minucci)


Quantunque si possa affermare che i diritti “digitali” dei cittadini siano oramai ampiamente riconosciuti e che la loro tutela sia già assicurata, invero, l’adozione della recente Comunicazione relativa alla definizione di una Dichiarazione europea sui diritti e i principi digitali pone in dubbio l’idoneità della sola CDFUE a coprire l’universo (in espansione e per molti versi sconosciuto) di tali diritti e al di là delle difficoltà connaturate al coordinamento di norme che presentano assonanze e similitudini, è innegabile un’accelerazione verso la cittadinanza europea digitale, che assicuri ai cittadini dell’Unione un accesso facile ai servizi pubblici digitali, sulla base di un’identità digitale universale, nonché ai servizi sanitari digitali.

SOMMARIO:

I. Introduzione - II. Il provvedimento di fermo: presupposto e base giuridica - III. L’ambito di applicazione della direttiva relativa al controllo da parte dello Stato di approdo - IV. L’ispezione dettagliata supplementare - V. La portata dei poteri di controllo dello Stato di approdo - VI. Le condizioni per il fermo di una nave - VII. Le risultanze dell’udienza - VIII. Considerazioni conclusive


I. Introduzione

Dopo l’udienza di discussione tenutasi lo scorso 30 novembre nelle aule della Corte di giustizia (per la cui ricostruzione sia consentito rinviare a B. Minucci, Il fermo amministrativo della nave Sea-Watch 4 al vaglio della Corte di giustizia, in Il Blog di AISDUE, 15 dicembre 2021) e nell’attesa della sentenza di risposta ai due rinvii pregiudiziali del Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia, la ben nota vicenda Sea-Watch si è arricchita di un ulteriore tassello con le conclusioni particolarmente attese dell’Av­vocato generale Rantos (https://curia.europa.eu/juris/document/document.jsf?text=&docid=254401&pageIndex=0&doclang=it&mode=lst&dir=&occ=first&part=1&cid=2981663), conclusioni che si allontanano di gran lunga dall’approccio adottato dal giudice del rinvio nelle sue ordinanze gemelle (si veda, per ambedue, l’ordinanza n. 2974). La controversia ha destato molto clamore e altrettanto è ancora destinata a destarne, essendo coinvolti interessi piuttosto delicati e di sicura rilevanza mediatica. Infatti, la causa, che vede coinvolte in prima linea la Sea-Watch e.V., da una parte, e le Capitanerie di Porto di Palermo e di Porto Empedocle, dall’altra, pone in evidenza le sfide che riguardano le questioni legate all’immigrazione nell’Unione europea e solleva domande in merito alle modalità con cui gli Stati devono affrontare ed eventualmente disciplinare l’at­tività di ricerca e salvataggio svolta dalle navi. Più precisamente, nodo cruciale del caso in esame è il riparto di competenze al riguardo tra lo Stato di bandiera e lo Stato di approdo e la possibilità (o meno) per quest’ultimo di disporre, in forza del diritto dell’Unione, il fermo di una nave a causa dell’esercizio di un’attività diversa da quella corrispondente alla sua certificazione. Occorre brevemente ricordare che la querelle ha origine nell’estate del 2020, quando la Sea-Watch 3 e la Sea-Watch 4 – due delle navi dell’orga­nizzazione umanitaria senza scopo di lucro, Sea-Watch, che ha sede legale in Berlino e svolge, in modo sistematico, attività di ricerca e soccorso (attività c.d. SAR), mediante navi di cui è allo stesso tempo proprietaria e gestore – lasciano a turno il porto di Burriana (Spagna), per procedere al salvataggio di diverse centinaia di persone [continua ..]


II. Il provvedimento di fermo: presupposto e base giuridica

Pare opportuno evidenziare subito che i provvedimenti di fermo erano stati adottati – sulla base del combinato disposto dell’art. 19 della direttiva 2009/16/CE, del Parlamento europeo e del Consiglio, relativa al controllo da parte dello Stato di approdo, e dell’art. 22 del d.lgs. n. 53/2011, di recepimento della medesima – a seguito di un’ispezione supplementare del tipo più dettagliato. Ebbene, ai sensi della relativa disciplina, in caso di carenze che rappresentano un evidente pericolo per la sicurezza, la salute o l’ambiente, l’autorità competente dello Stato di approdo, nel quale è ispezionata la nave, accerta che questa sia sottoposta a fermo o che sia interrotto lo svolgimento dell’operazione durante la quale emergono le carenze. E tale provvedimento di fermo o di interruzione di un’operazione non può essere revocato fintantoché non sia stato eliminato il pericolo o fintantoché l’au­torità non stabilisca che, a determinate condizioni, la nave possa riprendere il mare o l’operazione possa ripartire senza rischi e pericoli. In realtà, la ricorrente lamentava la mancata indicazione della base giuridica del potere esercitato, ossia la norma che l’amministrazione aveva ritenuto fondante il suo potere, quale Stato di approdo, di procedere al controllo nei termini e con l’ampiezza di cui trattasi. Al riguardo, è utile precisare che un provvedimento di fermo, adottato in presenza di carenze rilevate in seguito ad un’ispezione supplementare, presuppone quale base giuridica del potere esercitato l’art. 13 della direttiva 2009/16/CE. E, non a caso, nelle prime difese in giudizio le amministrazioni convenute hanno legittimato il loro intervento alla luce di tale norma, che, peraltro, autorizza un’ispezione e una verifica supplementare della conformità ai requisiti operativi di bordo se, a seguito dell’ispezione iniziale, sussistano fondati motivi per ritenere che le condizioni delle navi, delle relative dotazioni o dell’equipaggio sostanzialmente non soddisfino i pertinenti requisiti di una convenzione. Più precisamente, per giustificare l’ispezione ulteriore è necessario che l’ispettore trovi prove concrete che, secondo il suo parere professionale, richiedono interventi di controllo maggiormente dettagliati. Inoltre, nelle successive memorie difensive, [continua ..]


III. L’ambito di applicazione della direttiva relativa al controllo da parte dello Stato di approdo

Le risposte a cui è giunto l’Avvocato generale Rantos nelle sue conclusioni, ancorché seguano un percorso argomentativo molto preciso e puntuale, appaiono nella sostanza solo parzialmente condivisibili. Esse suscitano, infatti, più di qualche perplessità con riguardo ad un effettivo bilanciamento tra gli interessi primari in gioco. Per quanto riguarda il primo quesito, l’Avvocato generale ritiene che la direttiva 2009/16/CE si applichi a navi che, pur essendo classificate e certificate come “navi da carico polivalenti” dallo Stato di bandiera, esercitano in modo esclusivo l’attività di ricerca e salvataggio in mare (v. R. Salvarini, The EC Directive on Port State Control: a Policy Statement, in The International Journal of Marine and Costal Law, 1996, p. 225 ss.). D’altra parte, sottolinea Rantos, l’art. 3, par. 4, della citata direttiva prevede che siano escluse dall’ambito di applicazione di questa “le navi di Stato usate per scopi non commerciali e le imbarcazioni da diporto che non si dedicano ad operazioni commerciali”. E, benché sia vero che le navi di cui trattasi sono usate per scopi non commerciali, come le due categorie di imbarcazioni appena menzionate, vero è anche che esse non possono essere equiparate, per questa sola ragione, a “navi di Stato” o a “imbarcazioni da diporto”, essendo destinate ad un’attività certamente lodevole, ma non di tipo ricreativo, sportivo o similare (v. Conclusioni cit., punti da 28 a 30). Contrariamente alle argomentazioni dell’Avvocato Generale, sembra però lecito osservare che una lettura congiunta delle norme rilevanti, ovvero l’art. 96 della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare e l’art. 3 della direttiva 2009/16/CE, confermerebbe la tesi che depone per la disapplicazione della stessa nel caso in esame. Infatti, entrambe le norme limitano l’intervento di Stati diversi da quello di bandiera, con riferimento particolare alle navi statali. Più nello specifico, come precisato anche dal giudice di rinvio, la circostanza che l’art. 3 della direttiva utilizzi il criterio della concreta attività esercitata da parte della nave ed escluda espressamente dal regime di controlli PSC (Port State Control) le navi che svolgono attività “non commerciali”, depone nel senso di un’esenzione delle [continua ..]


IV. L’ispezione dettagliata supplementare

La seconda questione pregiudiziale si interroga circa la possibilità di procedere ad un’ispezione dettagliata supplementare, ai sensi dell’art. 11 della direttiva 2009/16/CE. Il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se la circostanza di aver trasportato, nel corso delle operazioni di salvataggio, un numero di persone notevolmente superiore a quello consentito dai certificati di sicurezza, possa legittimamente rientrare nel “fattore di priorità assoluta” o nel “fattore imprevisto” che legittimano, ai sensi dell’allegato I, parte II, punti 2A e 2B, della direttiva, un’ispezione supplementare. L’Avvocato generale – e qui le sue considerazioni possono essere condivise – sottolinea opportunamente la necessità per il giudice nazionale di procedere a una verifica di fatto, caso per caso, che non può limitarsi a una constatazione formale della differenza tra il numero delle persone trasportate e quello delle persone il cui trasporto è autorizzato ai sensi dei certificati, ma deve valutare in concreto i rischi di un siffatto comportamento e di eventuali pericoli per le persone, le cose o l’ambiente. Il soccorso svolto da navi private costituisce sempre un evento eccezionale e obbligatorio, rispetto al quale dovrebbe trovare piena applicazione il divieto di tenere conto del numero delle persone soccorse di cui all’art. IV, b) della Convenzione Solas. Vale a dire che non dovrebbero essere computate le persone che si trovano a bordo di una nave per causa di forza maggiore o in conseguenza dell’obbligo imposto al comandante di trasportare naufraghi o altre persone. Va rilevato, inoltre, che tale situazione può talvolta costituire, come avviene nel caso di specie, la conseguenza diretta e necessaria di un trasporto effettuato al fine di adempiere all’obbligo di salvataggio in mare, che incombe al comandante della nave in forza del diritto internazionale e che è sancito, in particolare, all’art. 98 della Convenzione sul diritto del mare. Invero, il diritto consuetudinario del mare esonera, nella misura in cui una nave adempie a tale obbligo, dalle prescrizioni imposte sulla base della sua classificazione. Quanto meno, perciò, in circostanze del genere il semplice fatto che le navi abbiano trasportato un numero di persone di poco superiore alla loro capacità massima non può essere considerato, di per [continua ..]


V. La portata dei poteri di controllo dello Stato di approdo

In merito alla terza questione pregiudiziale, avente ad oggetto la portata dei poteri di ispezione dello Stato di approdo, in forza dell’art. 13, par. 3, della direttiva 2009/16/CE, il Collegio giudicante era giunto a conclusioni molto caute, invocando l’intervento della Corte di giustizia, in quanto, a ben vedere, sia il diritto internazionale che quello dell’Unione risultano, allo stato, carenti di una disciplina specifica per la classificazione dell’attività c.d. SAR svolta da imbarcazioni private. In presenza di un simile vuoto normativo, in effetti, sembrerebbe logico tracciare un limite al potere di ispezione PSC onde evitare l’attribuzione di così penetranti poteri. L’Avvocato generale Rantos afferma, invece, che un’ispezione più dettagliata di una nave battente bandiera di uno Stato membro include la verifica che tale nave rispetti le prescrizioni in materia di sicurezza, prevenzione dell’inquinamento e condizioni di vita e di lavoro a bordo applicabili alle attività alle quali la nave è effettivamente e concretamente destinata (soprattutto se esse differiscono da quelle collegate alla sua classificazione). Tale disposizione conferisce un potere di controllo che supera necessariamente quello dell’“ispezione iniziale”, prevista dall’art. 13, par. 1, della direttiva, che riguarda, in sostanza, i certificati e le condizioni generali della nave. Un controllo di tal genere, secondo Rantos, non può limitarsi ai soli requisiti di natura formale previsti dai certificati relativi alla classificazione della nave, ma deve piuttosto considerare la conformità di tale nave a tutte le norme internazionali convenzionali applicabili. Differentemente da quanto sostenuto nelle conclusioni, e in linea con quanto già evidenziato dal giudice rimettente, preme però rimarcare l’im­prescindibile diversità tra lo Stato di bandiera e lo Stato di approdo circa l’estensione dei poteri e il riparto di competenze, peraltro confermata da diverse disposizioni della Convenzione UNCLOS sopra richiamata. Sia consentito partire dal nucleo centrale, ovvero dal principio generale ricavabile dal diritto internazionale del mare che riconosce l’impossibilità per lo Stato di approdo di esercitare un controllo sulle navi, qualora si spinga a riqualificare la classificazione delle stesse, determinando e attuando una [continua ..]


VI. Le condizioni per il fermo di una nave

Logico corollario di quanto sostenuto dall’Avvocato generale è la possibilità, per lo Stato di approdo, di adottare provvedimenti di fermo quando le irregolarità constatate presentino un rischio manifesto per la sicurezza, la salute o l’ambiente. Difatti, una nave che esercita in modo sistematico l’attività di ricerca e salvataggio in mare non va considerata, in quanto tale, immune da provvedimenti di fermo, qualora violi prescrizioni ad essa applicabili in forza del diritto internazionale o del diritto dell’Unione, fatto salvo l’obbligo di salvataggio in mare (v. Conclusioni cit., punto 65). Nondimeno, siffatta conclusione pare affrettata ed eccessivamente severa. Se uno Stato costiero intende sollevare contestazioni sulla certificazione di una nave, alla luce dell’attività che viene da essa in concreto svolta, si ritiene che la misura più adeguata non può essere rappresentata dal provvedimento di fermo. Piuttosto, lo Stato di approdo dovrebbe intraprendere un dialogo con lo Stato di bandiera e dare avvio ad una fase di collaborazione. Trattasi di un rapporto di scambio reciproco che è ulteriormente rafforzato se calato nel diritto dell’Unione europea e letto alla luce del principio di leale cooperazione tra gli Stati membri (art. 4 TFUE) e del principio di fiducia reciproca, desumibile dalla giurisprudenza della Corte. Ciò trova peraltro riscontro nella raccomandazione (UE) 2020/1365 della Commissione del 23 settembre 2020, annessa al Nuovo patto sull’immigra­zione e l’asilo, sulla cooperazione rafforzata tra gli Stati membri, riguardo alle operazioni condotte da navi possedute o gestite da soggetti privati, ai fini di attività di ricerca e soccorso. Essa mira alla definizione di un quadro strutturale, affidabile e sostenibile contenente norme specifiche per la solidarietà tra gli Stati, cosicché l’auspicio della Commissione è quello di rendere l’Unione europea pronta per affrontare le situazioni di crisi e di forza maggiore con resilienza e flessibilità, attraverso un lavoro di previsione volto a migliorare l’efficacia della risposta (vedi in dottrina M. Borraccetti, Il nuovo patto europeo sull’immigrazione e l’asilo: continuità o discontinuità col passato?, in Dir. Imm. Cittadinanza, 2021, n. 1). Alla luce di quanto finora detto consegue che [continua ..]


VII. Le risultanze dell’udienza

Al fine di giustificare ulteriormente i motivi per cui le conclusioni dell’Avvocato Generale non appaiono sempre convincenti, sembra utile ricordare che, nel corso dell’udienza, la ricorrente nei giudizi principali ha sottolineato di aver sempre rispettato le caratteristiche sostanziali volte a rendere le proprie imbarcazioni sicure e idonee a garantirne l’attività di soccorso. Le navi interessate, oggetto dei rinvii pregiudiziali, sono state, infatti, strutturate in modo adeguato a svolgere tale attività e ad ospitare un numero di persone, pure superiore al limite consentito, senza rischio manifesto per la salute umana, l’ambiente marino e la sicurezza. La ricorrente ha precisato, tra l’altro, che eventuali rischi derivanti dal­l’utilizzazione delle navi per i servizi di raccolta, di ricerca e di soccorso non possono essere eliminati totalmente, giacché anche l’elevazione della capienza ad un numero superiore non esclude che possa esserci un potenziale pericolo se le navi, in concreto, sono chiamate a soccorrere il doppio delle persone. Non sarebbe possibile sostenere con assoluta certezza se le navi siano in astratto e in ogni occasione sicure, a causa delle imprevedibilità legate alle operazioni di soccorso. E, sebbene ad oggi, la Sea-Watch 3 e la Sea-Watch 4 abbiano provveduto a rettificare la maggior parte delle contestate carenze, l’amministrazione italiana ha confermato il fermo delle navi fino alla risoluzione delle rimanenti irregolarità, che l’amministrazione tedesca, quale Stato di bandiera, considera invece non sussistenti, alla luce della corretta interpretazione della normativa sia internazionale sia dell’Unione (v. A. Carpenter, S.M. Macgill, The New EU Directive on Port Reception Facilities for Ship-Generated Waste and Cargo Residues: an Evaluation, in C.A. Brebbia, J. Olivella, Maritime Engineering and Ports II, Southampton, 2000, p. 173 ss.).


VIII. Considerazioni conclusive