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L'impatto del recesso sul processo d'integrazione europea attraverso la lente della Corte di giustizia

Maria Eugenia Bartoloni, Associato di Diritto dell’Unione europea, Università della Campania “Luigi Vanvitelli”.

In un recente filone giurisprudenziale, la Corte di giustizia è stata chiamata a fornire indicazioni in merito all’interpretazione dell’art. 50 TUE. Tra le molte, la Corte ha affrontato in particolare tre principali questioni: la determinazione della natura della decisione di recesso e la possibilità di una sua eventuale revoca unilaterale; gli effetti che determina la notifica dell’intenzione di recedere; lo status dell’ex membro in assenza di un accordo. Alla luce di questa analisi, l’A. sostiene che, nonostante la centralità che assume l’argomento della sovranità statale e quello del volontarismo, in questa giurisprudenza la Corte di giustizia ribadisce con forza l’approccio integrazionista fondato su una rete strutturata di principi, regole e relazioni giuridiche reciprocamente interdipendenti che collegano l’UE e i suoi Stati membri e i suoi Stati membri tra loro. Visto in questa prospettiva, il recesso non appare come un’espressione di disintegrazione, bensì una manifestazione della “premessa democratica” su cui si basano il processo di integrazione europea e l’adesione all’Unione.

In recent case-law, the ECJ has been called upon to give guidance in respect of interpretation of Article 50 TEU. This analysis focuses on three main issues: the decision to withdraw and its unilateral revocation; the effects of the notification of the intention to withdraw; the status of the ex-Member State in the absence of an agreement. In the light of this analysis, the A. argues that, despite core components of the state sovereignty have been (re)affirmed and the role of voluntarism bolstered, in this case-law the ECJ vigorously reaffirms the integrationist approach founded on a «structured network of principles, rules and mutually interdependent legal relations linking the EU and its Member States, and its Member States with each other». Seen in this perspective, withdrawal is not an expression of disintegration, but a manifestation of the “democratic premise” on which both the European integration process and the membership of the Union are based.

KEYWORDS

Withdrawal – Membership – Sovereignty – European Integration Process – European Arrest Warrant.

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Sommario:

I. Premessa. - II. La decisione di recedere e la sua eventuale revoca: le senten-ze Wightman e Schindler - III. Gli effetti della notifica nella prospettiva delle sentenze RO e M.A. - IV. Lo status dell’ex membro in assenza di accordo. - V. Considerazioni conclusive. - NOTE


I. Premessa.

L’art. 50 TUE, come è noto, fornisce indicazioni non troppo dettagliate sull’istituto del recesso e sulla sua corrispondente procedura. La clausola in esso contenuta – eufemisticamente definita “poco chiara”, “imprecisa”, “incompleta”, “criptica”, “ambigua” [1] – si limita infatti a delineare gli aspetti essenziali della disciplina sul recesso, sia quelli di carattere sostanziale che quelli di carattere procedurale [2]. Essi possono essere così riassunti. Ai sensi del primo paragrafo, ogni Stato membro può decidere, conformemente alle proprie norme costituzionali, di recedere dall’Unione. Il secondo paragrafo dispone che l’intenzione di recedere vada notificata al Consiglio europeo, che formula orientamenti destinati ad ispirare i successivi negoziati tra l’U­nione europea e lo Stato interessato in vista della sottoscrizione di un accordo volto a definire le modalità del recesso. L’accordo, negoziato secondo le modalità previste dall’art. 218 TFUE, è concluso a nome dell’Unione dal Consiglio che delibera a maggioranza qualificata, previa approvazione del Parlamento europeo. A termini del terzo paragrafo, lo Stato uscente perderà la qualifica di Stato membro e cesserà, di conseguenza, di essere vincolato dai Trattati a decorrere dalla data di entrata in vigore dell’accordo di recesso o, in mancanza di quest’ultimo, dopo due anni dalla notifica dell’intenzione di recedere [3]. Non stupisce dunque che la clausola rechi con sé limiti ed incertezze interpretative. Di qui l’esigenza non solo di chiarirne la disciplina, facendo luce su questioni di natura sia procedurale che sostanziale, ma anche di determinare l’essenza stessa dell’istituto del recesso in una prospettiva ricostruttiva più generale [4]. Sotto questo profilo, oltre alla prassi applicativa relativa alla vicenda della Brexit (che ha innegabilmente avuto il merito di sciogliere alcuni nodi indicando, ad es., il ruolo svolto dal Consiglio europeo [5]), non sono trascurabili le indicazioni fornite dalla Corte di giustizia la quale, in alcune sentenze recenti, ha avuto modo di contribuire a delineare alcune peculiarità dell’isti-tuto del recesso e le conseguenze che esso determina sul piano dell’ordina­mento [continua ..]

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II. La decisione di recedere e la sua eventuale revoca: le senten-ze Wightman e Schindler

Quanto alla fase iniziale della procedura di recesso, l’art. 50 TUE si limita a sancire che «ogni Stato membro può decidere, conformemente alle proprie norme costituzionali, di recedere dall’Unione». Il secondo paragrafo indica che «lo Stato membro che decide di recedere notifica tale intenzione al Consiglio europeo». Questa formulazione, assai stringata, tra le molte, solleva due questioni. Si pone, innanzitutto, il problema di determinare i soggetti eventualmente abilitati a verificare la conformità della decisione di recesso rispetto alle norme costituzionali dello Stato recedente. In secondo luogo, posto che la decisione di recesso, per innescare la complessiva procedura negoziale, deve essere soggetta a notifica, si tratta di sapere se essa, una volta espletato questo adempimento, possa essere revocata unilateralmente dallo Stato. In merito alla prima questione, se si muove dal presupposto che il requisito del rispetto delle norme costituzionali è concepito, nel complessivo impianto normativo dell’art. 50 TUE, come un requisito sostanziale, non è del tutto irragionevole sostenere che la sua osservanza possa essere non solo messa in discussione dal Consiglio europeo, che potrebbe avere il compito di accertare la validità della notifica anche valutando il rispetto delle condizioni cui è sottoposta [13], ma essere anche assoggettata, in seconda battuta, ad eventuale scrutinio da parte della Corte di giustizia. In altre parole, se pure la disposizione prefigura una sorta di “diritto al recesso”, questo potrebbe però non rappresentare l’automatico effetto di una delibera unilaterale, quanto piuttosto una sorta di “richiesta” la cui legittimità può essere sindacata dalla Corte di giustizia al pari di ogni altro requisito sostanziale o procedurale previsto all’art. 50 TUE [14]. Nelle sentenze Wightman e Schindler, la Corte esclude siffatta interpretazione. Muovendo dal presupposto che la decisione di recedere è esclusiva manifestazione della volontà sovrana dello Stato [15], la Corte ricostruisce tale decisione come un atto che, essendo unilaterale, non esige alcuna accettazione o autorizzazione [16]. Ne consegue che la decisione di recesso non può in alcun modo essere assoggettata al controllo dell’osservanza delle sue norme costituzionali da parte [continua ..]

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III. Gli effetti della notifica nella prospettiva delle sentenze RO e M.A.

Se uno Stato ha dunque la possibilità di revocare la notifica della sua decisione di recedere fino a quando non sia intercorso un accordo o fino alla scadenza dei due anni, si pone la questione di determinare gli effetti prodotti dalla notifica dell’intenzione di recesso. Pur trascurato dalla letteratura, questo appare un profilo assai interessante che merita una riflessione approfondita. Nella sentenza sul caso Schindler il Tribunale si limita ad indicare che la notifica innesca la complessiva procedura di recesso ai sensi dell’art. 50 TUE [26]. Questo, chiaramente, è l’effetto più immediato sul piano formale, oltre a quello di aprire un “periodo di riflessione”, come implicitamente indicato dalla Corte nella sentenza Wightman [27]. Non è chiaro, tuttavia, se gli effetti si esauriscano all’apertura dei negoziati e al conseguente periodo di interlocuzione tra Stato recedente e UE, oppure se la notifica sia idonea a determinare ulteriori conseguenze. Se, in relazione a questo specifico profilo, la giurisprudenza non fornisce indicazioni, alcune pronunce indicano esplicitamente quali sono gli effetti che la notifica non è invece in grado di produrre. Innanzitutto, la notifica «non ha l’effetto di sospendere l’applicazione del diritto dell’Unione nello Stato membro che ha notificato la propria intenzione di recedere dall’U­nio­ne» [28]; in secondo luogo, «non ha l’effetto di sospendere o di alterare lo status di Stato membro» [29]. Questa soluzione, secondo cui la notifica non determina alcun effetto preclusivo o limitativo quanto a status e sfera applicativa del diritto dell’Unione, appare senz’altro condivisibile. È ragionevole infatti ritenere che, prima che il recesso diventi effettivo, né lo status di membro muti, né si modifichi l’ambito d’applicazione del diritto UE o se ne sospenda l’applicazione nei confronti dello Stato membro recedente. Ma è altrettanto ragionevole ritenere che la notifica non spezzi, o quantomeno non scalfisca, neanche quella “fiducia reciproca” che è conseguenza del patto di condivisione di «una serie di valori comuni sui quali l’Unione si fonda» [30]? Se, ai sensi dell’art. 49 TUE, «l’Unione raggruppa Stati che [continua ..]

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IV. Lo status dell’ex membro in assenza di accordo.

La questione dello status dell’ex membro in assenza di un accordo di recesso non è specificamente affrontata dalla Corte. Essa tuttavia fornisce, pur implicitamente, preziose indicazioni sempre nelle sentenze RO e M.A. Come si ricorderà, l’ulteriore questione che la Corte era stata chiamata ad affrontare in entrambe le cause riguardava la verifica, in una prospettiva chiaramente prognostica ex ante, del livello di tutela dei diritti fondamentali garantito dall’ex membro in un eventuale contesto post recesso [40]. Conviene brevemente svolgere questa premessa. Se la notifica dell’inten­zione di recedere, come visto, non determina alcuna conseguenza sul funzionamento del meccanismo del mandato d’arresto (o, corrispondentemente, sul funzionamento del sistema di Dublino) in quanto lo Stato membro recedente è soggetto, nel suo complesso, al diritto e ai principi dell’ordi­namento UE, compreso il principio di fiducia reciproca, i presupposti chiaramente mutano una volta cessato il vincolo di appartenenza all’UE. Il recesso cioè, una volta intervenuto, dissolve la premessa fondamentale su cui poggia il patto di condivisione degli Stati membri e, con esso, spezza la fiducia reciproca che ne deriva. Di conseguenza, in uno scenario di recesso non negoziato, caratterizzato da un contesto del tutto privo delle tutele proprie del diritto UE, si pone il problema di individuare quali possano essere gli strumenti che intervengono a garantire che la persona oggetto di mandato (o il richiedente protezione internazionale) non subisca la violazione dei propri diritti fondamentali. La Corte, dunque, nelle sentenze RO e M.A. era chiamata a determinare le condizioni in presenza delle quali possono essere effettuati la consegna o il trasferimento, non potendo più operare, in termini automatici, la presunzione di tutela equivalente che si fonda sulla reciproca fiducia. Anche in questo caso, è necessario impostare la questione. Non vi è dubbio che lo Stato membro recedente, in un contesto di post recesso, sarà a tutti gli effetti uno Stato terzo. Se così – ed in riferimento al mandato d’arresto europeo – non sarebbe irragionevole che l’ex membro, in una situazione che si caratterizza per l’assenza di un accordo di recesso, sia soggetto alla disciplina che, mutatis mutandis, [continua ..]

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V. Considerazioni conclusive.

I tre profili della procedura di recesso appena analizzati evidenziano, pur in modo diverso, come la Corte di giustizia, nella sua argomentazione, attribuisca ampio rilievo all’ente statuale e alle sue esigenze, fino a suggerire una sorta di deferenza nei confronti dello Stato recedente. È singolare notare, in questa prospettiva, che il vocabolario della Corte si appropria di termini che non utilizza mai in relazione agli Stati membri: irrompono espressioni quali “scelta sovrana” [46], “diritto sovrano” [47], “carattere sovrano del diritto di recesso” [48], “decisione sovrana” [49], “diritto unilaterale sovrano” [50]. L’impressione, difficile da dissipare, è che concetti quali sovranità, volontarismo, unilateralismo, estranei alle logiche integrazioniste della Corte, siano riuscite a fare breccia nell’argomentazione giuridica facendo forse presagire, nella futura elaborazione giurisprudenziale, una sorta di “ritorno degli Stati”, soggetti cui, fino a questo momento, sarebbe stato assegnato un ruolo da comprimari, ma mai da protagonisti assoluti della costruzione europea. Questa è, d’altra parte, la lettura che ha accolto queste prime sentenze sul recesso, lettura che tende a rilevare come la vicenda della Brexit sia un’occasione per smontare certi miti legati all’integrazione europea – quali, ad es., il mito della sovranità perduta o quello dell’Europa subita [51] –, mettendo in crisi il concetto stesso di integrazione europea quale emerge dalla giurisprudenza Van Gend en Loos [52]: cioè un’integrazione che si fonda su un ordinamento autonomo, caratterizzato da «organi comunitari investiti istituzionalmente di poteri sovrani da esercitarsi nei confronti sia degli Stati membri», i quali «hanno rinunziato, anche se in settori limitati, ai loro poteri sovrani». Secondo questa lettura, dunque, la Corte avrebbe, in queste prime pronunce sul recesso, avallato tale interpretazione, sancendo la riacquisita riappropriazione del processo di integrazione europea da parte degli Stati membri a discapito del carattere autonomo dell’Unione europea. Ebbene, siffatta lettura non solo appare non necessaria, ma anche fuorviante. Essenzialmente due ordini di motivi militano per questa conclusione. Non soltanto perché [continua ..]

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NOTE

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