Il Diritto dell'Unione EuropeaEISSN 2465-2474 / ISSN 1125-8551
G. Giappichelli Editore

06/10/2019 - Riflessioni a margine del caso Roche Novartis: il controllo giurisdizionale sugli atti dell’AGCM

argomento: Osservatorio

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di CELESTE PESCE

  1. La vicenda giudiziaria prende avvio nel 2014 all’esito dell’istruttoria dell’AGCM che accerta e sanziona l’intesa restrittiva della concorrenza ai sensi dell’art. 101 TFUE, posta in essere dai gruppi Novartis AG e Novartis Farma S.p.A. e F. Hoffmann-La Roche Ltd, Roche S.p.A. al fine di realizzare una differenziazione artificiosa di due farmaci – Avastin (per il trattamento di patologie tumorali) e Lucentis (destinato alla cura di patologie oftalmiche) – agendo sulla percezione dei rischi dell’uso off-label di Avastin in ambito oftalmico.

Avverso il provvedimento dell’Autorità le parti propongono prontamente impugnazione dinanzi al giudice amministrativo di primo grado che però conferma le argomentazioni formulate dall’AGCM sulla configurazione del mercato rilevante e sull’esistenza dell’accordo illecito e, quindi, la sanzione antitrust (TAR Lazio 2 dicembre 2014, n. 12168).

La questione arriva in appello al Consiglio di Stato e, su richiesta di questo, in via pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea per dirimere alcuni dubbi interpretativi sull’applicazione dell’art. 101 TFUE.

In risposta, la Corte giudica la pratica de qua come restrittiva della concorrenza ai sensi del diritto antitrust dell’Unione e non esentabile ai sensi dell’art. 101, par. 3 TFUE (Corte giust. 23 gennaio 2018, C-179/16, F. Hoffmann-La Roche e a.).  Essa chiarisce, in particolare, che l’art. 101 TFUE permette di includere nel mercato rilevante, oltre ai medicinali autorizzati per il trattamento delle patologie di cui trattasi, un altro medicinale autorizzato per la terapia di altra disfunzione, ma comunque utilizzato per la patologia in oggetto (off-label), che presenta quindi un concreto rapporto di sostituibilità con i primi. Ancora, che la medesima disposizione vieta altresì l’intesa concordata tra le parti di un accordo di licenza, a nulla valendo la sua natura accessoria all’accordo stesso. Ciò specialmente nel caso in cui la pratica (accessoria) miri a limitare e/o fortemente influenzare (in maniera ingannevole) le scelte di terzi nell’impiego di un altro farmaco per la cura delle medesime patologie. E, in definitiva, stabilisce che costituisce una restrizione della concorrenza per oggetto, l’intesa tra due imprese che commercializzano due medicinali concorrenti, avente ad oggetto la diffusione di informazioni ingannevoli sugli effetti collaterali negativi dell’uso off-label di uno dei due farmaci, al fine di ridurre la pressione concorrenziale sul ricorso all’altro.

Precisata l’applicazione dell’art. 101 TFUE alla controversia, il 15 luglio 2019, il Supremo giudice amministrativo (Cons. St. 15 luglio 2019, n. 4990) rigetta l’appello ritenendo infondati i motivi addotti dagli appellanti anche (e soprattutto) alla luce della sentenza pregiudiziale del giudice dell’Unione, nonché di quella da esso successivamente resa su di un’analoga questione (Corte giust. 21 novembre 2018, C-29/17, Novartis Farma SpA).

 

  1. La pronuncia del Consiglio di Stato fa chiarezza su una delle questioni anticoncorrenziali più spinose degli ultimi decenni e interessa sotto diversi punti di vista giuridici e dottrinali.

In primo luogo, conferisce certezza giuridica alla tutela dei singoli potenzialmente lesi dalla pratica illecita. Invero, la questione giunge all’epilogo solo in apparenza o per meglio dire esclusivamente sotto il profilo della tutela pubblica della concorrenza. È ben noto che le evidenze formatesi nel contesto del public enforcement aprono e agevolano la tutela privatistica individuale e/o collettiva di tipo follow on dinanzi al giudice ordinario. Difatti, il successo delle azioni risarcitorie civili intentate solo dopo che la tutela pubblicistica giunge al termine è strettamente legato alle pronunce giurisdizionali come ai provvedimenti amministrativi antitrust. Questi ultimi rappresentano, cioè, unitamente o singolarmente considerati, la prova “regina” dell’illecito antitrust all’origine del danno lamentato (art. 7 d.lgs. n. 3/2017).

Pertanto, nel caso di specie, la sentenza del Consiglio di Stato, il provvedimento ACGM che n’è il presupposto e la conferente giurisprudenza UE legittimano e assicurano la riuscita dei giudizi civili risarcitori che Ministero della salute, Ministero dell’economia e delle finanze e Regioni possono avviare ai sensi del d.lgs. n. 3/2017 (di recepimento della direttiva 2014/104/UE – direttiva danno antitrust), per il danno dovuto alla maggiore spesa sostenuta negli anni a causa della pratica dei gruppi sanzionati di favorire la vendita di un farmaco più costoso (Lucentis). Senza contare, poi, le azioni di danno, individuali o collettive, che i consumatori riguardati o chiunque si ritenga leso dalla violazione antitrust possono intentare ai sensi della medesima normativa.

Tutto ciò a vantaggio della complementarietà e dell’interazione tra il public e il private enforcement nei termini definiti dal diritto dell’Unione (considerando 3, 7, 12 e 13 del regolamento (CE) n.1/2003; considerando 6 della direttiva danno antitrust) e dalla giurisprudenza della Corte di giustizia (tra le tante, sentenze 20 settembre 2001, C-453/99, Courage; 13 luglio 2006, C-295-298/04, Manfredi; 5 giugno 2014, C‑557/12, Kone e a.) per assicurare la massima efficacia alle regole di concorrenza e garantire la spendibilità dell’effetto diretto degli articoli 101 e 102 TFUE dinanzi ai giudici nazionali a seguito dell’accertamento dell’infrazione stessa da parte dell’autorità della concorrenza o a prescinderne (Corte giust. 24 ottobre 2018, C-595/17, Apple Sales International e a.).

 

  1. La sentenza in commento induce a riflettere soprattutto sulle considerazioni del Consiglio di Stato in merito all’intensità del sindacato del giudice amministrativo sugli atti dell’Autorità, vale a dire sulle sue argomentazioni tecniche (ed economiche), alla luce delle modifiche introdotte dal d.lgs. n. 3/2017 che ha recepito la direttiva danno antitrust già richiamata.

Volendo tracciare lo scenario (giuridico e dottrinario) in cui si sviluppa il ragionamento del Consiglio di Stato e, quindi, pregresso alle novità ivi sancite, occorre ricordare che il sindacato giurisdizionale sulla discrezionalità tecnica scaturisce dal rapporto tra diritto e tecnica e pone il tema del possibile sconfinamento del sindacato di legittimità nel merito amministrativo.

È in re ipsa che il giudice amministrativo conosce (sempre) il fatto – vale a dire l’evento portato in giudizio sulla base del provvedimento amministrativo e delle contestazioni dei ricorrenti – mediante la valutazione piena e autonoma delle circostanze.

La questione acquista peculiarità in presenza di valutazioni tecniche (ed economiche) delle autorità indipendenti – come nel caso di specie – nei confronti delle quali il sindacato giurisdizionale diventa trasversale toccando la cognizione del fatto (Cons. St. 12 giugno 2015, n. 2888; 4 settembre 2015, n. 4123; 9 agosto 2016, n. 3552), le evidenze istruttorie (Cons. St. 6 maggio 2014, n. 2302; 2 ottobre 2015, n. 4616), la verifica del corretto esercizio del potere attribuito all’Autorità (Cons. St. 9 aprile 1999, n. 601; 21 marzo 2011, n. 1712) e dei parametri di adeguatezza e proporzionalità dell’ammenda (art. 134, co. 1, lett c) c.p.a.; Cons. St. 22 luglio 2014, n. 3896).

Ebbene, sino alla pronuncia in parola, il giudice poteva sindacare la congruità e l’attendibilità della scelta amministrativa, mai la sua opportunità. Il sindacato sull’opinabilità si configurava come vaglio di attendibilità della scelta amministrativa conseguente a valutazioni di ordine tecnico. Valutazioni sindacabili al fine non di sostituire la scelta dell’Autorità con quella del giudice, ma di verificare che la stessa rientrasse in una gamma di opzioni plausibili, ragionevoli e proporzionate (c.d. attendibilità tecnica). Sostanzialmente, il giudice amministrativo si muoveva all’interno della rappresentazione della realtà descritta nel provvedimento.

Tale impianto pare sgretolarsi nelle considerazioni del Supremo giudice amministrativo dovendo tutto ciò, a suo giudizio, essere posto in relazione a quanto disposto dalla normativa vigente e in particolare modo all’art.7 d.lgs. n. 3/2017 e alla lettura costituzionalmente orientata dell’intero testo di recepimento della direttiva danno antitrust.

In effetti, è indubbio che la disposizione citata estende il sindacato del giudice (amministrativo) anche ai profili tecnici che non presentano un oggettivo margine di opinabilità intesa come “sostituibilità” piuttosto che come limite alla cognizione.

Ne deriva in capo al giudice amministrativo il dovere di accertare direttamente i fatti e, al tempo stesso, di appurare criticamente gli elementi valutativi lasciati indeterminati dalla fattispecie sanzionatoria. Di qui la propensione a non arrestarsi alla rappresentazione dei fatti forniti dal procedimento. Atteggiamento, per altro, avallato dall’attuale funzione del processo amministrativo ispirato alla piena ed effettiva tutela e alla logica di un sistema rimediale “aperto” frutto della convergenza della Convenzione CEDU con le previsioni della Carta costituzionale e della Carta di Nizza sui diritti fondamentali.

Difatti, continua il Consiglio di Stato, la circostanza che l’ordinamento generale pone una regola sostantiva che determina a priori ed in astratto ciò che spetta ad ognuno dei soggetti coinvolti, assicurandone soddisfazione, legittima il giudice a definire egli stesso la fattispecie sostanziale nella dimensione oggettiva di fatto storico accertabile in via diretta dal giudice e non di fatto mediato dall’apprezzamento dell’Autorità.

Cade quindi l’idea che il giudice si limita a verificare che l’opzione scelta in sede di procedimento amministrativo rientri nella ristretta gamma di risposte plausibili. E prende spazio la logica di una compiuta e diretta disamina della fattispecie ad opera del giudice amministrativo al pari di quanto accade nelle azioni risarcitorie stand alone, ove il giudice civile è chiamato a verificare direttamente i presupposti dell’illecito, senza alcuna intermediazione da parte del potere pubblico.

Ciò vale a dire che il Consiglio di Stato del luglio 2019 archivia il vaglio (non sostitutivo) di attendibilità e consacra il sindacato pieno di maggiore attendibilità. Ne consegue che il baricentro – sinora adoperato – dato dal grado di intensità del controllo giurisdizionale sugli atti dell’Autorità in termini di possibilità o meno di sindacato sostitutivo del giudice perde valore e lascia spazio ad un tipo di giurisdizione amministrativa piena e trasversale nei confronti delle infrazioni concorrenziali.

Le conclusioni esposte trovano supporto nella conferente giurisprudenza dell’Unione – su cui ritorniamo tra qualche battuta – secondo cui nell’ambito del controllo giurisdizionale sulle sanzioni antitrust, nessun ostacolo alla pienezza del sindacato può discendere dal «potere discrezionale di cui dispone la Commissione, in forza del ruolo assegnatole, in materia di politica della concorrenza, dai Trattati UE e FUE» (Corte giust. 11 settembre 2014, C-382/12, punto 156, MasterCard e a. c. Commissione).

I poteri sostitutivi del giudice amministrativo nei confronti delle decisioni dell’AGCM sono, pertanto, costruiti analogamente a quanto la Corte di giustizia riconosce in capo a sé al cospetto dei provvedimenti antitrust della Commissione.

In definitiva, il Consiglio di Stato fa breccia nella discrezionalità dell’Autorità e rafforza la funzione “operativa” del processo amministrativo, alienando il sistema nazionale a quello europeo consolidato da tempo.

Sarà interessante osservare l’evoluzione di tali principi, la loro attuazione pratica e ancora la capacità del giudice amministrativo di affinare i poteri investigativi così acquisiti su tematiche tecniche quali quelle della competitività. Non meno importanti i risvolti dell’esercizio dei pieni poteri summenzionati sulla tutela privatistica ricordata poc’anzi.

 

  1. Pare opportuno ricordare brevemente la giurisprudenza UE che ha fortemente influenzato la decisione in esame. Si fa riferimento alle sentenze che affermano e difendono il potere del giudice UE di “sostituirsi” alla Commissione e che ritengono che il giudice UE non può arrestarsi dinanzi al potere discrezionale della Commissione in tema di concorrenza e rinunciare a un controllo approfondito in fatto e in diritto.

Si tratta di un principio costruito nel tempo dalla Corte di giustizia che affonda le radici nel previgente sistema dettato dal primo regolamento sull’applicazione degli allora articoli 85 e 86 TCEE (oggi articoli 101 e 102 TFUE) e che trova conferma nell’attuale disciplina dettata dal regolamento (CE) 1/2003, secondo cui il vaglio giurisdizionale sugli atti previsto dai Trattati implica che il giudice dell’Unione eserciti un controllo di tipo giuridico e fattuale e che disponga del potere di valutare le prove, di annullare la decisione impugnata e di modificare l’ammontare delle sanzioni irrogate (Corte giust. 11 luglio 1985, 42/84, Remia e a. c. Commissione; 8 dicembre 2011, C-386/10 P, Chalkor c. Commissione; 6 novembre 2012, C-199/11, Otis e a.; 1° dicembre 2014, C-382/12 P, MasterCard e a. c. Commissione).

Nello scenario attuale, il controllo pieno sugli atti della Commissione non è messo in discussione e anzi in taluni giudizi è richiamato per gli ulteriori profili approfonditi (restrizioni accessorie, ricorso annullamento etc.). Ne segue che il controllo di legittimità (art. 263 TFUE) è completato dalla competenza estesa al merito per quanto riguarda l’importo dell’ammenda come previsto dall’art. 31 del regolamento (CE) n. 1/2003 e dal considerando 33, i quali unitamente letti ed interpretati sottopongono le decisioni adottate dalla Commissione in applicazione del regolamento stesso all’esame della Corte di giustizia. Come a dare per acquisito e “naturale” che la tutela piena ed effettiva voluta dal diritto primario dell’Unione – Trattati e Carta di Nizza – richiede, se non impone, che il giudice UE eserciti la competenza giurisdizionale anche di merito sulle decisioni antitrust emesse dalla Commissione (v. anche art. 229 TFUE).

Per giurisprudenza consolidata, l’esercizio della competenza estesa al merito non equivale ad un controllo d’ufficio e anzi il procedimento dinanzi ai giudici dell’Unione è di tipo contraddittorio. Più chiaramente, ad eccezione dei motivi di ordine pubblico (sollevati d’ufficio dal giudice), il ricorrente è tenuto ad identificare gli elementi contestabili della decisione impugnata, a formulare eccezioni e ad addurre prove (ivi inclusi i seri indizi) volte a dimostrare che le proprie censure sono fondate.

Senza, per tale via, violare la regola secondo cui spetta alla Commissione fornire la prova delle infrazioni alle regole della concorrenza e produrre gli elementi di prova idonei a dimostrare l’esistenza dei fatti che integrano l’illecito. O, parimenti, i dettami del principio della tutela giurisdizionale effettiva di cui all’art. 47 della Carta di Nizza (ex multis, parità delle armi. Cfr. Corte giust. 26 gennaio 2017, C‑626/13 P, Villeroy & Boch Austria c. Commissione; 26 settembre 2018, C-99/17 P, Infineon TEchnologies c. Commissione).

Arrivando alle conclusioni, il potere sostitutivo del giudice dell’Unione, affermato da lungo tempo dalla Corte di giustizia nell’ambito del diritto della concorrenza, è dunque oggi riconosciuto anche in capo al giudice amministrativo nazionale. Con un epilogo positivo sul fronte della certezza e dell’uniformità giuridica.

Pare, quindi, corretto affermare che la giurisprudenza europea e quella nazionale concordano sulla possibilità per il giudice amministrativo di sostituire la propria valutazione a quella espressa dall’AGCM e nella pratica di riformulare o rimodulare il provvedimento sanzionatorio nella sua interezza.