Il Diritto dell'Unione EuropeaEISSN 2465-2474 / ISSN 1125-8551
G. Giappichelli Editore

22/07/2019 - La nozione di “atto regolamentare” nella sentenza Montessori: legittimazione attiva dei singoli e gerarchia delle fonti

argomento: Osservatorio

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di GRAZIA VITALE

1. Una delle principali novità che si deve al Trattato di Lisbona è relativa alla ricevibilità dei ricorsi di annullamento proposti dai singoli, denominati “ricorrenti non privilegiati” (A. M. Romito, Il ricorso per annullamento ed i limiti alla tutela dei ricorrenti non privilegiati, in Studi int. eur., 2013, p. 525 ss.).

Per questi soggetti non è stato mai sufficiente, ai fini dell’impugnabilità di un atto, che esso comportasse la lesione di un loro specifico interesse, ma si è sempre reso necessario che ricorressero anche determinati ulteriori presupposti. Ne è derivata una disciplina che già dalle prime applicazioni risultava particolarmente restrittiva, ossia limitativa dell’accesso alla giustizia per i singoli. E ciò perché gli interessi sottesi alle posizioni giuridico soggettive loro attribuite da norme dell’ordinamento dell’Unione non trovavano un’agevole soddisfazione attraverso un mezzo di ricorso che, in pratica, subordinava la sua esperibilità alla sussistenza di troppo stringenti requisiti.

Su un così peculiare scenario si è innestata copiosa giurisprudenza della Corte, alla quale si deve il merito di avere sempre più acutamente lumeggiato i contorni della disciplina; nonché vivace dottrina, che ha messo in luce come l'applicazione della norma sull’impugnazione degli atti da parte dei singoli fosse foriera di potenziali compromissioni del principio di effettività della tutela giurisdizionale (F.G. Jacobs, Effective Judicial Protection of Individuals in the European Union, Now and in the Future, in Dir. un. eur., 2002, p. 203 ss.). Onde sopperire alle carenze o presunte tali del sistema, e accogliere la necessità di allargare le maglie della ricevibilità dei ricorsi di annullamento proposti dai singoli, il Trattato di Lisbona ha riformulato la norma di riferimento, introducendo anche un regime di impugnazione specifico per gli “atti di natura regolamentare” (R. Mastroianni, A. Pezza, Access of Individuals to the European Court of Justice of the European Union under the New Text of Article 263, para 4, TFEU, in Riv. it. dir. pubb. com., 2014, p. 923 ss.). Quando vengano in rilievo, quindi, atti di questo tipo, che non abbiano bisogno di misure di esecuzione e incidano direttamente sulla sfera giuridica del singolo, quest’ultimo è legittimato ad impugnarli senza dovere provare altresì la sussistenza dell’ulteriore requisito dell’interesse individuale. La ratio della norma, con evidenza, è quella di facilitare l'accesso alla giustizia, in specie per tutti quei soggetti che, pur se titolari di un interesse diretto, non potrebbero altrimenti ottenere tutela innanzi al giudice interno in riferimento ad un atto dell'Unione illegittimo ma tuttavia privo di misure nazionali di esecuzione. L'effetto, d'altro canto, è stato quello di determinare un contemperamento tra due diverse, ma ugualmente importanti esigenze: quella di evitare che l'eccessivo ampliamento dei requisiti di esperibilità dei ricorsi in annullamento potesse trasformali in una sorta di actio popularis, di dubbia funzionalità; quella di determinare un regime processuale idoneo a perseguire l'obiettivo della tutela giurisdizionale effettiva.

In base a questa premessa, il lavoro si concentrerà sulla pronuncia emessa dalla Corte di giustizia nel caso Montessori (6 novembre 2018, cause riunite da C-622/16 P a C-624/16 P).

Si tratta di una sentenza che ha messo in campo una molteplicità di questioni, adottando una motivazione complessa e articolata che taglia trasversalmente sia istituti di struttura dell'ordinamento, che elementi giuridici più settoriali, attinenti al merito della disciplina applicabile alla fattispecie. Ampia, infatti, risulta l'analisi dei requisiti di legittimazione attiva dei singoli ai fini della proposizione del ricorso in annullamento, così come la disamina della disciplina prevista dal diritto dell’Unione per il recupero degli aiuti di Stato illegittimamente concessi. In questa sede, tuttavia, non si intende soffermarsi su tutte tali pur interessanti questioni, ma solo su quella parte della statuizione che riguarda la definizione della natura dell'atto “regolamentare”, di cui all'art. 263, co. 4, TFUE. Si vuole mettere in luce, in particolare, come la sentenza si collochi sul solco di una tradizione giurisprudenziale che, sebbene non molto risalente, attesa la giovane età del Trattato di Lisbona, è tuttavia costante nel qualificare gli “atti regolamentari” come atti non legislativi di portata generale (L. Calzolari, La nozione di “atti regolamentari” ex art. 263 co. 4 TFUE nelle prime sentenze del Tribunale dell'Unione europea, in Dir. un. eur., 2012, p. 523 ss.).

La Montessori, quindi, non è di interesse in quanto innovativa nei contenuti. La Corte, infatti, non ha mutato la sua giurisprudenza, confermando l'interpretazione restrittiva che dell'art. 263, co. 4, aveva sempre prospettato; e lo ha fatto, per di più, con un incedere argomentativo asciutto, caratterizzato da molti rinvii a sentenze precedenti, quasi a dare per scontato che non fosse cambiato nulla rispetto al passato e che quindi non valesse la pena dilungarsi ulteriormente sul punto.

Ma in verità qualcosa è cambiato nell'ordinamento dell'Unione!

E ci si riferisce al suo sistema delle fonti, contesto nel quale si inserisce inevitabilmente anche il meccanismo del ricorso in annullamento degli atti delle istituzioni. Esiste, insomma, un collegamento inscindibile tra il nuovo assetto delle fonti normative (e l'equilibrio istituzionale di cui esso è l'espressione), e i requisiti di legittimazione attiva dei singoli ai fini della loro impugnazione, atteso che da sempre questi sono attinenti tanto alla natura dell’atto controverso, quanto al rapporto intercorrente tra esso e il ricorrente. E tuttavia pare che questi cambiamenti, se proprio non avrebbero potuto indurre la Corte a mutare il proprio tradizionale orientamento, adottando una soluzione diversa rispetto a quella rinvenibile anche nella prassi costante, avrebbero potuto rappresentare un argomento alternativo per raggiungere il medesimo risultato di cui alla statuizione finale.

Si tenterà allora di dimostrare che la qualificazione della natura dell'atto regolamentare avrebbe potuto essere offerta facendo leva sul fatto che la più recente formulazione dell'art. 263 TFUE sia lo specchio di un nuovo sistema, lato sensu gerarchico, di norme, rispetto al quale vuole rappresentare uno strumento completo di tutela a garanzia degli interessi individuali.

 

2. A sostegno della propria impugnazione, la Commissione sottolineava come il Tribunale avesse erroneamente interpretato e applicato le condizioni previste dalla formulazione dell’art. 263, co. 4, TFUE ai fini della ricevibilità dei ricorsi proposti dai singoli, ritenendo che ogni tipo di atto non legislativo di portata generale sia per ciò stesso un atto regolamentare. Il Tribunale sarebbe altresì incorso in un altro errore di diritto nel momento in cui aveva dedotto dalla portata generale delle misure nazionali oggetto della decisione controversa, il carattere regolamentare della stessa (Trib. 15 settembre 2016, causa T-220/13, Montessori; Trib. 15 settembre 2016, causa T-219/13, Ferracci).

E tuttavia, una diversa soluzione contrasterebbe con l’idea per cui la modifica che il Trattato di Lisbona ha introdotto rispetto all’art. 263, co. 4, TFUE, abbia inteso alleggerire i requisiti di ricevibilità dei ricorsi di annullamento proposti dai singoli, svincolandoli dal requisito dell’incidenza individuale. La stessa Corte di giustizia, infatti, in un suo importante precedente, aveva precisato che «la modifica delle condizioni di ricorso delle persone fisiche e giuridiche, previsto dall’articolo 230, co. 4, CE, aveva lo scopo di consentire a queste ultime di proporre, a condizioni meno restrittive, ricorsi di annullamento contro atti di portata generale ad esclusione degli atti legislativi» (Corte giust. 3 ottobre 2013, causa C-583/11 P, Inuit, punto 60). Ne conseguiva che nella categoria dell'atto regolamentare, di cui all’attuale art. 263 TFUE, non potesse sussumersi anche quella di atto legislativo.

Sulla base delle premesse rinvenibili nei suoi stessi precedenti, la Corte giunge infine nel caso Montessori alla determinazione per cui «l’interpretazione sostenuta dalla Commissione secondo la quale esistono atti non legislativi di portata generale, come la decisione controversa, che non rientrerebbero nella nozione di “atti regolamentari” ai sensi dell’articolo 263, co. 4, terza parte di frase, TFUE, non può essere condivisa» (punto 24). Onde suffragare la propria posizione, i giudici dell’Unione tentano una ricostruzione sistematica della questione controversa, ancorandola a un argomento letterale, a uno storico e a uno teleologico. Per quanto riguarda, in primis, l’interpretazione letterale del nuovo art. 263 TFUE, la Corte ritiene che il tenore di detta disposizione faccia riferimento, in termini estremamente generali, agli “atti regolamentari” e che non contenga, quindi, «alcuna indicazione del fatto che tale riferimento riguarderebbe solo taluni tipi o sottocategorie di questi atti» (punto 25). Soffermandosi, poi, sull’origine storica della norma, la Corte ricorda che dai lavori preparatori dell’art. III-365, par. 4, del progetto di Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa, del quale il nuovo art. 263, co. 4, TFUE è pedissequamente riproduttivo, si evince che l’aggiunta della terza parte di frase di tale disposizione era destinata ad ampliare, per i singoli, i requisiti di ricevibilità dei ricorsi di annullamento e che i soli atti di portata generale per cui occorreva mantenere un’impostazione restrittiva erano gli atti legislativi. Il più significativo e dirimente appare, infine, l’argomento teleologico, attinente, cioè, all’obiettivo specifico perseguito dalla norma, nella nuova formulazione offerta a Lisbona. Esso consiste nella valorizzazione della posizione del singolo, e ciò a mezzo dell'attenuazione della rigidità dei requisiti di ricevibilità dei ricorsi in annullamento proposti dai privati contro tutti gli atti dell’Unione produttivi di effetti giuridici erga omnes, ad eccezione di quelli di natura legislativa. Ora, «il fatto di sottrarre all’ambito di applicazione di detta disposizione taluni tipi o sottocategorie di atti non legislativi di portata generale sarebbe in contrasto con tale obiettivo» (punto 27).

 

3. La pronuncia resa dalla Corte nel caso Montessori, come già anticipato, conferma nella forma e nella sostanza la tradizionale posizione assunta dai giudici dell’Unione sul significato da attribuire all'espressione “atto regolamentare”.

Come è noto, il TFUE non contiene alcuna definizione della nozione di cui trattasi. Definizione che si rintraccia, quindi, non solo nelle molteplici e talvolta non unanimi posizioni della dottrina, ma soprattutto nella giurisprudenza della Corte di giustizia, che ha nel tempo enucleato una serie di criteri giuridici di riferimento ai fini dell'individuazione della natura dell'atto impugnabile dai singoli ai sensi e per gli effetti della norma citata.

Per quanto riguarda la dottrina, è possibile rintracciare due filoni interpretativi. Secondo un orientamento maggioritario, che si basa su una lettura storica e teleologica della nuova formulazione della norma, con l'espressione “atti regolamentari” dovrebbe intendersi con certezza un riferimento agli atti non legislativi (K. Lanaerts, Le Traité de Lisbonne et la protection jurisdictionelle del particuliers en droit de l'Union, in Cah. dr. eur., 2009, p. 725). Non sono mancati studiosi, tuttavia, che si sono orientati nel senso che il nuovo art. 263, co. 4, ultima frase, si riferirebbe a qualunque atto dell'Unione di portata generale e produttivo di effetti giuridici, che si tratti di un atto legislativo, non legislativo, delegato ovvero esecutivo. Secondo questa scuola di pensiero sarebbe preferibile un'interpretazione quanto più ampia possibile dell'espressione “atto regolamentare” che, prescindendo dal procedimento utilizzato per la sua adozione, valorizzi piuttosto la sua idoneità a produrre effetti giuridici (T. Tridimas, The European Court of Justice and the Draft Constitution: A Supreme Court of the Union, in T. Tridimas, P. Nebbia (eds), European Law of the Twenty-first Century, Oxford, 2004, p. 124).

Correlativamente, le pronunce che hanno segnato le linee guida di interpretazione della nuova disposizione del Trattato sono riconducibili, in prima battuta, ai noti casi Inuit (Trib. 6 settembre 2011, causa T-18/10) e Microban (Trib. 25 ottobre 2011, causa T-262/10). In entrambi i casi il Tribunale stabilì esplicitamente che nell'ambito della categoria degli “atti regolamentari” andassero sussunti tutti gli atti non legislativi di portata generale. È come se i giudici di Lussemburgo, in altri termini, avessero creato una dicotomia, all'interno della più ampia categoria degli atti a portata generale, tra gli atti legislativi e gli atti regolamentari di cui all'art. 263.

Il percorso logico-giuridico seguito per giungere a tale conclusione fu sostanzialmente analogo a quello poi utilizzato dalla Corte nel recente caso Montessori, atteso che si sostanziava in un argomento letterale, uno storico e uno teleologico. Così, partendo proprio dall'interpretazione letterale della norma di cui si discute, il Tribunale rilevava che con il termine “regolamentare” non potesse se non intendersi una specie del genus degli atti a portata generale, con la conseguenza per cui i nuovi termini di impugnazione non potessero coinvolgere tutti gli atti a portata generale, «bensì una loro categoria più ristretta, vale a dire gli atti regolamentari» (T-18/10, cit., punto 43). Utilizzando l'argomento “storico”, poi, il Tribunale precisava che l'interpretazione offerta per il termine “regolamentare”, tale da opporne il significato a quello di cui agli atti legislativi, avrebbe certamente trovato riscontro in una nota del Presidium della Convenzione per l'elaborazione del progetto di Costituzione. Con l'argomento teleologico, infine, il Tribunale sosteneva che lo scopo della norma in esame fosse quello di «consentire ad una persona fisica o giuridica di proporre un ricorso contro quegli atti di portata generale, diversi dagli atti legislativi, che la riguardano direttamente e non comportano alcuna misura d’esecuzione, evitando così che essa debba violare il diritto per avere accesso ad un giudice» (T-18/10, cit., punto 50).

Peraltro, il Tribunale si preoccupava di precisare che l'assunto per cui un atto legislativo non possa essere impugnato alle stesse condizioni che consentono il ricorso in annullamento avverso un atto regolamentare, non risulta scalfito nemmeno in ragione dell'esistenza dell'art. 47 della Carta dei diritti fondamentali. In ossequio alla costante giurisprudenza della Corte, infatti, «il giudice dell'Unione non può, senza eccedere le proprie competenze, interpretare i requisiti cui è subordinata la possibilità di un singolo di proporre ricorso contro un regolamento in modo da indurre ad escludere i requisiti medesimi, che sono espressamente previsti dal Trattato, e ciò neppure alla luce del principio della tutela giurisdizionale effettiva» (Corte giust. 1° aprile 2004, causa C-263/02 P, Jégo-Quéré, punto 36).

La linea interpretativa del Tribunale veniva poi ripresa dalla Corte nelle sentenze pronunciate nei relativi giudizi di impugnazione.

Riguardo alla nozione di atti regolamentari, la Corte ribadiva come essa avesse una portata più limitata rispetto a quella di “atti” utilizzata all’art. 263, co. 4, prima e seconda parte di frase, TFUE. La prima delle due nozioni, più in particolare, non includerebbe tutti gli atti di portata generale, ma solo una categoria più ristretta di atti di questa natura, posto che «l’adozione di un’interpretazione contraria equivarrebbe a privare di senso la distinzione tra i termini “atti” e “atti regolamentari” delineata dalla seconda e dalla terza parte di frase dell’articolo 263, co. 4, TFUE» (Inuit, cit., punto 58). 

La statuizione della Corte, adita in sede di impugnazione, aggiungeva poi un argomento ulteriore. Più in particolare, la Corte esordiva valorizzando la circostanza che la nuova formulazione che il Trattato di Lisbona aveva offerto per la norma in materia di ricorso di annullamento proposto dai singoli fosse certamente funzionale all'estensione della tutela dei diritti individuali, ampliando cioè la possibilità per le persone fisiche e giuridiche di esperire ricorsi contro gli atti dell'Unione presuntivamente illegittimi. E tuttavia, sottolineavano i giudici del Lussemburgo, tale finalità precipua sarebbe stata perseguita dagli estensori del Trattato di Lisbona non solo ampliando le possibilità di ricorsi individuali diretti, ma anche valorizzando le potenzialità applicative dell'art. 19, par. 1, co. 2, TUE, relativo alla tutela giurisdizionale offerta dai giudici nazionali per le fattispecie ricadenti nel campo di applicazione del diritto dell'Unione. Ciò significa, in altri termini, che secondo la Corte l'adeguata tutela degli interessi individuali non dovrebbe passare necessariamente ed esclusivamente attraverso un ricorso diretto - dalle possibilità sempre più ampie e tendenzialmente illimitate - ai giudici dell'Unione, atteso che esso non possa affatto configurarsi come espressione di un diritto assoluto, bensì (e al massimo) di un diritto disciplinato da disposizioni del Trattato e sottoposto ai limiti e alle forme ivi stabiliti (Inuit, cit., punti 90 ss., e giurisprudenza richiamata).

 

4. La pronuncia Montessori pare condivisibile nel momento in cui conferma il tradizionale orientamento della Corte in ordine al quale con l'espressione “atto regolamentare” debba intendersi qualsivoglia atto a portata generale, purché adottato a mezzo di una procedura non legislativa. E tuttavia, la Corte avrebbe potuto mantenere ferma la posizione anche a mezzo di un periodare argomentativo diverso rispetto a quello prospettato già a partire dalla sentenza Inuit, di cui si è detto. Ciò significa, in buona sostanza, che i giudici dell'Unione avrebbero potuto e forse dovuto utilizzare, per perseguire il medesimo risultato finale sul piano dell'interpretazione dell'inciso dell'art. 263, degli argomenti attraverso i quali non sarebbe stato possibile prestare il fianco a quelle critiche, in parte fondate e condivisibili, da più parti avanzate in riferimento agli argomenti letterale, storico e teleologico.

Cerchiamo di chiarire, soffermandoci in prima battuta sulle critiche più rilevanti aventi ad oggetto la motivazione rinvenibile nella costante giurisprudenza della Corte e tentando di presentare, poi, una soluzione argomentativa in parte alternativa.

Come si è già detto, il Tribunale prima e la Corte successivamente, hanno finito con il creare una netta dicotomia tra gli atti legislativi e gli atti regolamentari cui si riferisce la nuova formulazione dell'art. 263 attraverso tre argomenti precipui, ognuno dei quali, in verità, reca in sé delle lacune logiche tali da renderlo non del tutto convincente.

Per quanto riguarda l'argomento letterale, ad esempio, è stato notato come i giudici dell'Unione avrebbero potuto pronunciarsi altrettanto correttamente nel senso di includere nella nozione di “atto regolamentare” anche gli atti adottati con procedura legislativa. In questo senso è stato sottolineato che la suddetta nozione sembri riecheggiare il termine “regolamento”, atto per il quale invero il Trattato prevede anche la forma legislativa, nonché quella del regolamento delegato e di quello di esecuzione. Certo, la critica appare acuta, ma non tiene conto della circostanza per la quale, se si ammettesse che nella nozione di “atto regolamentare” possano rientrare tutti gli atti a portata generale, non si capirebbe la ragione per la quale il legislatore dell'Unione abbia invece voluto inserire l'ultima frase dell'art. 263, co. 4, secondo la formulazione che oggi conosciamo. E non si capirebbe nemmeno, se si accettassero le conseguenze di questa ricostruzione, quale potrebbe essere la sensibile linea di demarcazione tra le varie ipotesi di legittimazione attiva dei singoli disegnate dal Trattato. Si tenga presente, inoltre, che qualsivoglia forma di interpretazione letterale reca necessariamente in sé dei limiti, atteso che essa rappresenta solo il punto di inizio di ogni processo ermeneutico e logico argomentativo e può condurre pertanto a risultati che, come si è appena visto, possono essere contraddittori e per ciò stesso poco convincenti e risolutivi.

Ed è anche per questa ragione che all'argomento letterale i giudici di Lussemburgo hanno affiancato anche l'argomento “storico”, sebbene neppure esso sia stato immune da critiche di vario ordine. La più significativa è quella che fa leva sulla circostanza di avere utilizzato, quale strumento interpretativo di una norma del Trattato, i lavori preparatori di un corpus normativo non solo diverso rispetto a quello che si voleva interpretare, ma per di più mai entrato in vigore per problematiche strutturali sulle quali non vale la pena di soffermarsi in questa sede. A ciò si aggiunga che, sebbene il testo dell'art. 263, co. 4, TFUE sia quasi pedissequamente riproduttivo dell'art. III-365 del Trattato Costituzionale, le modifiche apportate da quest'ultimo alla disciplina del ricorso in annullamento erano strettamente legate alle variazioni funzionali che al livello sistemico delle competenze normative e delle classificazioni degli atti giuridici voleva la Costituzione, poi naufragate e non riprese da Lisbona.

Anche l'argomento teleologico, infine, nonostante fosse in effetti quello più forte, è stato oggetto di rilievi critici. Così, ad esempio, è stato sottolineato che se lo scopo della norma, nella sua nuova veste assunta con l'introduzione dell'ultima frase dell'art. 263, co. 4, era quello di allargare le maglie della legittimazione attiva dei singoli, l'interpretazione restrittiva offerta per l'inciso “atto regolamentare” rischiava di produrre l'effetto opposto a quello sperato.

Ora, si è visto come gli argomenti addotti dai giudici dell'Unione a sostegno dell'interpretazione dell'art. 263, co. 4, ultima frase, non paiano convincere in pieno, prestandosi a rilievi critici che, sebbene non sempre fondati, si dimostrano comunque suggestivi. Vi è quindi un altro argomento che la Corte avrebbe potuto utilizzare e che, se portato alle estreme conseguenze, avrebbe creato forse minori problemi sul piano della ricostruzione e dell'equilibrio del sistema; un argomento facente leva sul rapporto lato sensu gerarchico che si è venuto inquadrando tra le fonti dell'ordinamento dell'Unione dopo Lisbona.

Tentando di semplificare, è come se il nuovo sistema giuridico – normativo si configurasse nei termini di una piramide, al vertice della quale collocare gli atti legislativi, seguiti dagli atti delegati emanati ai sensi dell'art. 290 TFUE e subito dopo da quelli esecutivi, di cui all'art. 291 TFUE (J.P. Jacqué, Le traité de Lisbonne. Une vue cavalière, in Rev. trim. droit eur., 2008, p. 439 ss.). 

Per gli atti legislativi pare plausibile un sistema restrittivo e aggravato di legittimazione attiva dei singoli, che possono impugnare solo gli atti che producano sulla loro sfera giuridica un'incidenza non solo diretta, ma anche individuale. E ciò non tanto perché gli stessi sarebbero il frutto di una più significativa legittimazione democratica, tale da creare un parallelismo con i meccanismi adottati dalla maggioranza dei sistemi processuali nazionali, ove gli atti legislativi non sono direttamente impugnabili dai singoli, mentre lo sono invece quelli regolamentari. Non si dimentichi, infatti, che la piena partecipazione del Parlamento – ossia dell'organo democraticamente più rappresentativo - al processo decisionale, viene garantita solo nella procedura legislativa ordinaria, e non anche in quella speciale. Si tenga presente, inoltre, che poiché le procedure comunitarie di adozione degli atti normativi prevedono comunque anche un coinvolgimento di istituzioni non democraticamente elette, quali il Consiglio e la Commissione, gli atti legislativi dell'Unione sono caratterizzati in ogni caso da un deficit democratico superiore rispetto a quello che riguarda gli atti legislativi nazionali; circostanza, questa, che minimizza la portata del parallelismo con i regimi di impugnazione previsti dai sistemi giuridici degli Stati membri.

La ragione della diversità di disciplina potrebbe risiedere piuttosto nel fatto che si tratta di atti che caratterizzano la struttura fondamentale del sistema normativo nelle materie di riferimento, nell'ambito delle quali vengono emanate, ossia che riguardano i profili più sensibili di disciplina e regolamentazione giuridica delle fattispecie cui risultino applicabili. Ad un atto legislativo, in altri termini, è così intimamente dovuta la tenuta del sistema che non può consentirsi ad un singolo di metterlo in discussione con facilità.

Diversa sarebbe invece la posizione assunta – tanto sul piano formale quanto su quello sostanziale – dagli atti delegati e da quelli di esecuzione aventi portata generale, ai quali forse hanno più peculiarmente pensato i redattori del Trattato allorquando è venuta in gioco la nuova formulazione dell'art. 263, co. 4.

Per quanto riguarda i primi, si tratta di atti giuridicamente rilevanti e vincolanti, certo, aventi peraltro una natura quasi normativa, ma tuttavia caratterizzati da limiti sostanziali intrinseci, in prima battuta circoscritti dal contenuto stesso della delega, e rinvenibili comunque nel testo del Trattato. È all'art. 290, infatti, che si deve la definizione delle caratteristiche precipue di questi atti; ed è sempre nell'art. 290 che si rintraccia il riferimento, tra gli altri, al requisito dell'incidenza su elementi “non essenziali” della materia di riferimento. Si tratta, quindi, di atti di portata generale, adottati a mezzo di una procedura non legislativa, ma che non incidono sugli elementi strutturali di disciplina dei settori ai quali si applicano, bensì su profili non essenziali degli stessi. Ed è principalmente a questi atti, anche se non solo ad essi (esistono, ad esempio, atti non legislativi adottati nell'ambito di una procedura sui generis, come previsto agli articoli 31, 43, 45, 66, 103, 109 e 215 TFUE), che il Trattato ha pensato allorquando ha inserito l'ultima frase dell'art. 263, co. 4. Ad atti, cioè, per i quali è senz'altro giustificabile un regime, diremmo agevolato di impugnazione per i singoli, atteso che la loro emanazione ed applicazione non incide se non per i profili “non essenziali” sull'impalcatura del sistema normativo della materia di riferimento.

Considerazioni analoghe possono prospettarsi in riferimento agli atti esecutivi, previsti dall'art. 291 TFUE, quando hanno portata generale, atteso che se l'atto esecutivo avesse portata individuale, la sua impugnabilità ricadrebbe nel regime previsto dalla prima delle ipotesi contemplate dall'art. 263, co. 4, TFUE. Si tratta di atti che, più ancora di quelli delegati di cui si è appena detto, riguardano in termini estremamente trasversali l'impianto normativo strutturale dell'ordinamento, rilevando solo sul piano dell'attuazione, ossia dello sviluppo in dettaglio, dello stesso. L'incidenza ridotta che la loro portata applicativa riesce a produrre sui contenuti normativi del sistema, potrebbe spiegare il perché di una legittimazione attiva più ampia ai fini della loro impugnazione da parte dei singoli, ai quali non sarebbe richiesta la sussistenza del requisito dell'incidenza individuale.

 

5. Il sistema delineato, in conclusione, sembrerebbe essere equilibrato e coerente alla luce di un nuovo assetto delle fonti non già basato sul dato meramente formale della procedura utilizzata per l'adozione dell'atto, ma su quello sostanziale del contenuto dello stesso, nel senso del grado di incidenza che, in ragione di tale contenuto, esso è idoneo a produrre sull'ordinamento complessivamente inteso. Quindi, il diverso regime applicabile agli individui che intendano impugnare un atto ex art. 263 TFUE non troverebbe la sua ragion d'essere nella linea di demarcazione formale tra una procedura e l'altra adottate per l'emanazione dell'atto stesso, ma piuttosto nel suo diverso contenuto sostanziale e, conseguentemente, nella diversa posizione dallo stesso assunta nell'ipotetica piramide delle fonti. Proprio questo argomento, se condotto fino in fondo dalla Corte, avrebbe potuto forse con maggiore forza confermare un assunto che è in sé condivisibile, in quanto lo avrebbe giustificato alla luce di superiori esigenze di tenuta del sistema delle fonti e di equilibrio di poteri tra le istituzioni coinvolte nella loro emanazione.

Precursore dei tempi il Prof. Tizzano, con le parole del quale ci piace concludere questo breve commento, aveva prospettato diversi anni fa questa intuizione, precisando che un sistema fondato su un rapporto gerarchico tra le fonti «consentirebbe di assicurare una tutela più razionale ed efficace, in quanto potrebbe essere esteso il diritto di ricorso dei privati contro gli atti che siano espressione della funzione esecutiva e regolamentare, mentre si giustificherebbe meglio una più ridotta o eventualmente solo indiretta tutela contro le 'leggi', salva la possibilità di azioni dirette in caso di lesione dei diritti fondamentali» (A. Tizzano, La gerarchia delle norme comunitarie, in Dir. un. eur., 1996, p. 57 ss.).