Il Diritto dell'Unione EuropeaEISSN 2465-2474 / ISSN 1125-8551
G. Giappichelli Editore

17/03/2022 - Verso una Carta dei diritti digitali (fondamentali) dell’Unione europea?

argomento: Osservatorio

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di PATRIZIA DE PASQUALE

 

Sommario: 1. Premessa. – 2. La Comunicazione relativa alla definizione di una Dichiarazione europea sui diritti e i principi digitali: aspetti generali. – 3. Segue: il contenuto dei diritti digitali previsti dalla Dichiarazione. – 4. Conclusioni: orizzonti per un “costituzionalismo digitale” dell’Unione europea.

 

1.   Quantunque si possa affermare che i diritti “digitali” dei cittadini siano oramai ampiamente riconosciuti e che la loro tutela sia già assicurata, soprattutto dagli Stati membri, attraverso il tradizionale e consolidato strumentario, la costante accelerazione a cui l’evoluzione tecnologica è sottoposta ed il suo carattere aleatorio mettono in discussione proprio la bontà di quello strumentario che fatica a stare al passo con il progresso e, al contempo, impongono una valutazione cauta sul livello di garanzie predisposto dall’Unione ed una riflessione sull’importante ruolo che la Carta dei diritti fondamentali (d’ora in avanti Carta o CDFUE) è chiamata a giocare in tale contesto. Anzi, sembra opportuno chiedersi se una lettura estensiva della Carta sia sufficiente a garantire una tutela piena di tali diritti, in considerazione della rapidità con cui si susseguono i nuovi traguardi tecnologici e delle situazioni peculiari che determinano (v. A. Adinolfi, L’Unione europea dinnanzi allo sviluppo dell’intelligenza artificiale: la costruzione di uno schema di regolamentazione europeo tra mercato unico digitale e tutela dei diritti fondamentali, in S. Dorigo (a cura di) Il ragionamento giuridico nell’era dell’intelligenza artificiale, Pisa, 2020).

Invero, l’adozione della recente Comunicazione relativa alla definizione di una Dichiarazione europea sui diritti e i principi digitali pone in dubbio l’idoneità della sola CDFUE a coprire l’universo (in espansione e per molti versi sconosciuto) di tali diritti (26 gennaio 2022, COM(2022) 27; per il testo della Dichiarazione, v., in stessa data, COM(2022) 28; per un primo commento, v. E. Celeste, Towards a European Declaration on Digital Rights and Principles: Guidelines for the Digital Decade, in dcubrexitinstitute.eu, 7 February 2022).

Vale a dire che la Commissione sembra muoversi verso l’elaborazione di un catalogo di diritti digitali, iniziando a tastare il terreno e, dunque, la volontà degli Stati di procedere in tale direzione, con atti di soft law. Difatti, nella Comunicazione è espressamente affermato che la Dichiarazione non pregiudica la tutela dei diritti delle persone online assicurata dal quadro giuridico dell’Unione attraverso i noti rimedi giurisdizionali. Nondimeno, “altri [diritti] possono richiedere ulteriori azioni, al livello appropriato”.

In tale prospettiva la Commissione si era già mossa con la Comunicazione sulla “Bussola digitale” (COM(2021) 118 final) nella quale, lo scorso anno, aveva sottolineato la funzione integrativa, rispetto alla Carta e alla legislazione in materia di protezione dei dati e di privacy, dei diritti e dei principi che sarebbero stati introdotti dalla Dichiarazione. Inoltre, definendo i quattro punti cardinali di tale Bussola, aveva enunciato – sia pure in forma embrionale – taluni diritti e principi a completamento dei progressi registrati nella costituzione di un mercato unico digitale ed aveva così posto un importante tassello per una sovranità digitale dell’Unione (DMA; DSA; Nuova strategia per la cibersicurezza; etc.).

Se è vero comunque che talune situazioni che riguardano la società digitale possano facilmente rientrare nel campo di applicazione di diritti riconosciuti dalla CDFUE, data la loro ampia formulazione - si pensi, ad es., alla tutela assicurata alla dignità, alla salute ed alla vita familiare nei quali possono essere ricompresi senza troppo sforzo diritti dell’era digitale [1] -; è pur vero che altri dovranno trovare adeguata collocazione nelle disposizioni primarie dell’Unione per evitare che la mera operazione ermeneutica si trasformi in una deminutio capitis. Va cioè considerato che se l’elaborazione di ulteriori strumenti legislativi potrebbe creare eccessiva confusione in fase di coordinamento ed interpretazione, l’assenza di disposizioni ad hoc avrebbe conseguenze ancora più gravi, traducendosi nel mancato riconoscimento della complessità del “mondo digitale” e in situazioni discriminatorie di estrema gravità.

Non si tratta perciò di sciogliere un dubbio amletico, in quanto la soluzione più semplice, almeno teoricamente, è evidente: approvare una “Carta dei diritti digitali dell’Unione europea” che costituisca un parametro di legittimità degli atti dell’Unione e garantisca ai diritti in parola una tutela effettiva. In subordine, e soltanto se questa opzione non fosse praticabile, allora potrebbero essere introdotti alcuni sostanziali emendamenti alla Carta in vigore, aggiungendo ai vari articoli un riferimento preciso al “digitale” ed alle sue implicazioni sullo specifico diritto contemplato.

In realtà, il cammino intrapreso dall’Unione con riferimento ai diritti digitali non è meno irto di quello che, all’epoca, ha percorso per arrivare all’approvazione della Carta dei diritti fondamentali e che – come ben noto – ha comportato una serie di tappe intermedie (dalla proclamazione a Nizza nel 2000, alla dichiarazione di Laeken del 2001, fino alla consacrazione nel Trattato di Lisbona del 2009; in dottrina, per tutti, G. Tesauro, Manuale di diritto dell’Unione europea, a cura di P. De Pasquale, F. Ferraro, III ed., Napoli, 2021, p. 151 ss.; A. Tizzano, L’application de la Charte des droits fondamentaux dans les États membres à la lumière de son article 51, paragraphe 1, in questa Rivista, n. 3, 2014, p. 429 ss.; B. Nascimbene, Carta dei diritti fondamentali, applicabilità e rapporti fra giudici: la necessità di una tutela integrata, in europeanpapers.eu, vol. 6, n. 1, 2021, p. 81 ss.).

Neppure va sottovalutato che la necessità di un Carta dei diritti digitali dell’Unione si scontra con le resistenze degli Stati membri riguardo ai suoi contenuti. Difatti, anche a livello nazionale, la grande rivoluzione indotta da internet nell’esistenza quotidiana è al centro del dibattito ed è stato (e continua ad essere) il “movente” per l’adozione di una molteplicità di disposizioni, che vedono protagonista innanzitutto la pubblica amministrazione e che rinvengono nella dimensione interna la sede più agevole per programmare strategie atte a governare tali fenomeni.

Di talché, la Carta dei diritti digitali dell’Unione europea – come già avvenuto per la sua omologa – nascerebbe come “sovrastruttura” rispetto all’alluvionale sedimentazione di norme nazionali, stratificatesi nel corso del tempo; a cui andrebbero ad aggiungersi i diritti che, al momento della sua adozione, saranno “inediti”. Più precisamente, essa non soltanto avrebbe la funzione di innovare, ma altresì di rendere espliciti una serie di principi e diritti che, nel frattempo e con molta probabilità, la Corte di giustizia avrà già garantito in via giurisprudenziale, grazie ad una complessa operazione basata principalmente sull’ analogia juris.

Al di là delle difficoltà connaturate al coordinamento di norme che presentano assonanze e similitudini, essa comunque imprimerebbe un’accelerazione verso la cittadinanza europea digitale, assicurando ai cittadini dell’Unione un accesso facile ai servizi pubblici digitali, sulla base di un’identità digitale universale, nonché ai servizi sanitari digitali. In altri termini, un apposito catalogo lancerebbe un chiaro segnale verso il pieno riconoscimento di uno spazio giuridico dell’Unione in cui i diritti e i doveri possono essere esercitati sia nel contesto fisico reale sia in quello virtuale.

 

2.   La Comunicazione accompagna la proposta di Dichiarazione - che la Commissione intende firmare solennemente e congiuntamente insieme al Parlamento europeo e al Consiglio - in cui sono enunciati diritti e principi digitali che dovrebbero informare l’attività delle imprese, delle pubbliche amministrazioni, dei responsabili politici, e dei singoli cittadini. I due documenti, come ricordato, sono soltanto l’ultimo step (almeno per il momento) di un cammino che da tempo l’Unione ha intrapreso in questo ambito [2] e che, nelle sue linee essenziali è diretto al pieno rispetto dei diritti fondamentali degli utenti nell’ambiente digitale, alla neutralità tecnologica e della rete e all’inclusività, attraverso il miglioramento delle abilità e delle competenze digitali [3]. Si tratta di esigenze sempre più avvertite, soprattutto dopo la pandemia di Covid-19 che ha portato in esponente il digital divide infrastrutturale e il digital divide cognitivo (c.d. analfabetismo informatico), e le conseguenze di essi sui livelli di istruzione e di formazione, e finanche sull’accesso alle strutture sanitarie.

In particolare, il fil rouge che lega i sei capitoli della Dichiarazione, ma che, più in generale, è rinvenibile nell’intera normativa che riguarda il sistema virtuale, è rappresentato dalla necessità di assicurare un ambiente online equo, neutro e aperto che rispetti i valori su cui l’Unione si fonda. In tale ottica, la Dichiarazione, che «ha il potenziale per diventare un punto di riferimento globale per molte questioni sociali ed etiche che emergono dalla trasformazione digitale», pone al centro di tale transizione digitale, oltre ai valori dell’Unione, le persone e ne propone un modello che contribuisca ai cambiamenti climatici ed alla protezione dell’ambiente.

L’ambizioso obiettivo è retto da principi e diritti che, pur non essendo già formalmente definiti, potranno essere enucleati con facilità, dato il livello di dettaglio del “contenuto” stabilito ed anche in considerazione che, in molti Stati membri, la regolamentazione “digitale” è in fase avanzata e potrà fornire una preziosa fonte a cui attingere. D’altronde, l’art. 6, par. 3, TUE sancisce che fanno parte del diritto dell’Unione, in quanto principi generali, “i diritti fondamentali risultanti dalle tradizioni costituzionali”. Si tratta, come noto, di principi propri del diritto dell’Unione europea, a tutti gli effetti ed a titolo originario, ancorché siano il risultato di una mera rilevazione da parte del giudice e non trovino espressa enunciazione nei Trattati.

Così, i principi digitali dovranno essere osservati delle istituzioni, organi, organismi dell’Unione, e dagli Stati, nell’ambito delle rispettive competenze e nel pieno rispetto del diritto dell’Unione; essi costituiranno cioè un chiaro impegno politico e una responsabilità che dovranno condividere le autorità dei due livelli.

In sostanza, la Dichiarazione, che espressamente afferma di basarsi sul diritto primario dell’Unione e, dunque, sui principi ivi contemplati, rappresenta di per sé una forza espansiva di alcuni di essi e, al contempo, il contenitore formale di quelli di nuova generazione, sia pure – al momento – genericamente contemplati.

Tra i principi classici destinati ad essere plasmati sulle esigenze correlate alla transizione digitale, va innanzitutto segnalato quello della solidarietà [4] e dell’inclusione che dovrebbe tradursi nella possibilità di offrire servizi digitali a tutti, perché “nessuno rimanga indietro” (sul tema, v. G. Scotti, Alla ricerca di un nuovo costituzionalismo globale e digitale: il principio di solidarietà “digitale”, in forumcostituzionale.it, n. 2, 2021, p. 399 ss.).  A tale principio è strettamente collegato quello che prevede una partecipazione libera al dibattitto democratico online, visto il ruolo della rete nell’“orientare” l’opinione pubblica e il confronto politico.

Di particolare rilievo è poi il principio della sostenibilità dei sistemi e dei dispositivi digitali, in quanto è oramai diffusa la consapevolezza che anche le tecnologie informatiche e digitali hanno un impatto ambientale (v. Una strategia per le PMI per un’Europa sostenibile e digitale, 10 marzo 2020, COM(2020) 103) [5]. O meglio, sono diventate, per certi versi, parte del problema [6]. L’accettazione di tale rischio, in diretta correlazione col cambio di priorità, è ben evidente nella Dichiarazione che, per evitare danni significativi all’ambiente e promuovere l’economia circolare, richiede che i prodotti e i servizi digitali siano “progettati, prodotti, utilizzati, smaltiti e riciclati in modo da ridurre al minimo il loro impatto negativo a livello ambientale e sociale”. E, rincarando la dose, aggiunge che “ogni persona dovrebbe avere accesso a informazioni precise e di facile comprensione sull’impatto ambientale e sul consumo energetico dei prodotti e dei servizi digitali, in modo da essere in grado di compiere scelte responsabili”.

Bisogna guardare, dunque, all’altra faccia della medaglia: l’ecosistema digitale può sì essere estremamente utile per il conseguimento degli obiettivi del Green Deal europeo, ma le infrastrutture e le tecnologie digitali stesse dovranno diventare più sostenibili ed efficienti sotto il profilo energetico e delle risorse.

Tra i principi c.d. di “nuova generazione” non vanno dimenticati, invece, quelli etici che devono informare l’uso di algoritmi e dell’intelligenza artificiale. Questione che, in passato, era stata oggetto di complessi e frequentemente astratti dibattiti e che, ora, è improvvisamente e inopinatamente divenuta centrale per la risoluzione di casi concreti. Come noto, il problema interessa soprattutto il settore delle politiche sociali per la rapida diffusione di software e piattaforme utilizzati in funzione predittiva (rilascio di benefici e prestazioni), ma altresì in funzione di controllo (verifica e sorveglianza per prevenire o sanzionare). Infatti, ben noti sono i rischi di discriminazione e violazione dei diritti fondamentali collegati all’utilizzo dei sistemi di digital welfare state che si avvalgono di algoritmi e big data e che, a macchia d’olio, possono propagarsi in altri settori, giacché numerosi sono i progetti che prevedono la costituzione di data set giurisdizionali, annotati anche semanticamente, puliti e anonimizzati, e la creazione di modelli di predizione in grado di rappresentare il ragionamento del giudice (per tutti, v. il rapporto dell’Agenzia dell’Unione europea per i diritti fondamentali, Getting the future right – Artificial intelligence and fundamental rights, in fra.europa.eu, 14 December 2020.

Proprio per far fronte a tali pericoli, la Dichiarazione garantisce la trasparenza e l’eguaglianza nell’uso degli algoritmi e dell’intelligenza artificiale ed impedisce la predeterminazione delle scelte. E, di conseguenza, stabilisce che “ogni persona dovrebbe essere messa nelle condizioni di godere dei benefici offerti dall’intelligenza artificiale facendo le proprie scelte informate nell’ambiente digitale, e rimanendo al contempo protetta dai rischi e dai danni alla salute, alla sicurezza e ai diritti fondamentali” (p. 3).

 

3.   Pure con riguardo ai diritti che dovranno essere rispettati in tutta l’Unione, la Dichiarazione disegna un complesso sistema che interseca diritti tradizionali e nuovi diritti digitali, molti dei quali nasceranno – come Minerva dalla testa di Giove – dai principi brevemente esaminati.

Occorre ribadire che, nella loro portata “consolidata”, alcuni diritti sono già garantiti dalla CDFUE e l’interprete, non senza qualche difficoltà, può limitarsi ad estrapolarli e adattarli alle fattispecie che riguardano l’uso delle tecnologie digitali. A bene vedere, infatti, l’obiettivo primario della Dichiarazione, di assicurare i diritti e le libertà offline anche online, riconduce gran parte delle situazioni del mondo digitale all’applicazione del principio di eguaglianza, letto in combinato disposto con le disposizioni settoriali rilevanti.

Nondimeno, è difficile immaginare che nell’alveo del principio di non discriminazione possano rientrare i processi che si basano sull’utilizzo di algoritmi o i rapporti che integrano esseri umani e macchine. Invero, la diffusione dei sistemi digitali ha già fatto conoscere (e il trend è in crescita) situazioni particolari che non trovano nell’attuale disciplina adeguate forme di garanzia.

Innanzitutto, l’accesso al sistema digitale (internet) dovrebbe essere ritenuto un vero e proprio diritto autonomo e, di conseguenza, dovrebbe essere tutelata, dalle autorità competenti, la connettività digitale ad alta velocità a prezzi accessibili, ovunque e per tutti, dando così corretta attuazione al principio della solidarietà e dell’inclusività. Il diritto all’accesso (o alla connessione) va declinato altresì come diritto-presupposto; ovvero, propedeutico rispetto ad altri diritti, quali il diritto all’istruzione, il diritto al lavoro, il diritto all’informazione e la libertà di espressione.

Ancora una volta, la linea di confine tra presente e futuro diventa labile, dal momento che alcuni diritti sono già sanciti dalla Carta dei diritti fondamentali e sono oggetto di una giurisprudenza granitica che ne assicura un’ampia tutela; eppure non vi è dubbio alcuni che essi vadano necessariamente “modernizzati”. Altrimenti detto, e a titolo meramente esemplificativo, il diritto all’alfabetizzazione digitale deve completare il più generale diritto all’istruzione (v. l’art. 2 della Dichiarazione dei diritti di internet). E, come ovvio, deve essere assicurata ad ogni persona la libertà di esprimersi nell’ambiente online, senza timore di essere oggetto di censura o di intimidazioni.

D’altro canto, andrebbe espressamente previsto il diritto alla disconnessione, in stretta correlazione con il pilastro sociale richiamato dalla Comunicazione e dalla proposta di Dichiarazione. Pertanto, ad ogni cittadino dell’Unione dovrebbe essere garantita una protezione adeguata nell’ambiente digitale come nel luogo di lavoro fisico, indipendentemente dalla sua situazione occupazionale, dalle modalità o dalla durata dell’attività.

Parimenti andrebbe fatta menzione dei diritti di cittadinanza, a partire da quelli: all’identità digitale protetta, al domicilio digitale, ad effettuare pagamenti elettronici, a ricevere servizi pubblici online e alla trasparenza telematica. Senza chiaramente dimenticare il diritto alla sicurezza dei propri dati che, sebbene oggetto di un’apposita disciplina, non potrebbe restare fuori da una Carta espressamente dedicata ai diritti digitali.

 

4.   Come già ricordato, molti di questi diritti hanno già trovato collocazione nella legislazione nazionale [7], ma è ben evidente la necessità di una tutela che protegga nel modo più equo, efficace e uniforme possibile i diritti digitali, superando l’eterogeneità dei sistemi giuridici nazionali che, in ragione delle caratteristiche differenziali, spesso non sono in grado di trattare singole questioni in maniera uguale, e talvolta, neanche in maniera simile. A ciò si aggiunga che la certezza del diritto, in una realtà giuridica culturalmente “pluralista” come quella dell’Unione europea, impone forme di sincretismo avanzate. Tanto più progredite per quanto attiene alla tutela dei diritti fondamentali.

Il ruolo che l’Unione è chiamata a giocare in questo settore è, quindi, indiscutibilmente importante. È quasi banale sottolineare che, per la sua natura sovranazionale, essa può intercettare e tutelare meglio degli Stati membri, i diritti della persona nel cyberspazio, ove l’assenza di frontiere, può diventare un fattore determinante per l’acquisizione di diritti e libertà, permettendo in modo spontaneo alle persone di stabilire contatti al di là di territori specifici ed offrendo nuove possibilità di apprendimento e di lavoro oltre i confini nazionali.

Con riguardo a tale fenomeno, si è già parlato di “costituzionalismo digitale” che, pur rappresentando la cartina di tornasole di un ulteriore e inevitabile indebolimento della sovranità nazionale, potrebbe garantire uno standard di tutela unico ed elevato, attraverso un’armonizzazione dei diritti digitali nell’Unione europea, (per una panoramica generale, G. De Gregorio, The rise of digital constitutionalism in the European Union, in International Journal of Constitutional Law, vol. 19, n. 1, 2021, p. 41 ss.).

Peraltro, un intervento prioritario dell’Unione, nella tutela dei diritti digitali, trova legittimazione nell’alluvionale autoregolamentazione di tipo tecnico che, se all’origine del fenomeno ha giustificato e favorito l’utilizzo degli strumenti informatici, si è poi gradualmente trasformata in un boomerang per quanto riguarda i meccanismi posti a salvaguardia della vita virtuale, dei suoi contenuti e dei suoi valori (M. Betzu, Poteri pubblici e poteri privati nel mondo digitale, in La Rivista “Gruppo di Pisa”, n. 2, 2021, p. 166 ss.). Il mondo digitale ha determinato cioè una frammentazione del potere costituito, che in taluni casi e per taluni aspetti appartiene ora alle corporazioni private (le piattaforme digitali). La difficoltà nel ricondurre tali schemi di potere nel classico rapporto verticale Stato-cittadino rende più complicata la tutela dei diritti nelle relative situazioni giuridiche (il cittadino non ha consapevolezza di come tutelarsi, da chi proteggersi, da chi farsi proteggere). Come è stato osservato, in un ambiente digitale globale, i rischi “per il principio dello stato di diritto non provengono solo dall’attuazione di tecnologie digitali da parte di attori pubblici, ma anche, e principalmente, dalla capacità degli attori privati transnazionali di sviluppare e applicare standard privati in concorrenza con valori pubblici” (O. Pollicino, Costituzionalismo, privacy e neurodiritti, in medialaws.eu, n. 2, 2021, spec. p. 10 ss.).

La minaccia invisibile, ma costante, ai suoi valori ha spinto l’Unione a sottolineare più volte, nella proposta di Dichiarazione, l’opportunità che essi, al pari dei diritti delle persone, siano rispettati online così come offline. Pure in quest’ottica, una Carta dei diritti digitali dell’Unione europea sarebbe un utile strumento per definire il sistema di tutela dei diritti in modo più sofisticato ed attuale, offrendo alla Corte di giustizia un parametro di riferimento preciso. Essa permetterebbe cioè alla Corte di rispondere alle richieste di garanzie effettive da parte della società digitale che non mancherà di interrogarla su questioni che vanno ben oltre le dinamiche dell’economia e del mercato online, come invece sinora è stato.

Infine, senza accedere a letture frettolose e senza indulgere sul nomen juris che assumerà (Carta, Dichiarazione, Codice, etc.), va notato che la “codificazione” dei diritti digitali seguirà un processo parzialmente inverso rispetto a quello che ha portato alla Carta dei diritti fondamentali, in quanto non sarà completamente mutuata dalle tradizioni giuridiche degli Stati membri, ma includerà altresì diritti che la stessa Unione avrà “creato” e poi “calato” nei singoli ordinamenti. E, provando ad essere un po’ visionari, si auspica che, a differenza della CDFUE, la nuova Carta possa rappresentare un riferimento unico nello spazio giuridico europeo, a prescindere dal cono d’ombra dei Trattati e dalla presenza o meno di una situazione di attuazione del diritto dell’Unione. Anche perché, mentre si sta qui a discutere di come regolamentare tali diritti, il cyberspazio continua ad evolversi, creando mondi virtuali nel mondo digitale (c.d. metaverso). E le persone, attraverso i propri avatar, vivono una vera e propria vita parallela, nella quale si discute già di come i relativi diritti soggettivi, che potremmo chiamare meta-digitali, possano essere tutelati al pari della vita reale.

 

 

[1] La Corte di giustizia ha già potuto valutare l’incidenza dell’uso di internet su taluni diritti, sia pure non propriamente “digitali”. Ad esempio, essa ha riconosciuto e tutelato il diritto all’oblio e, con due sentenze del 2019, ha fissato i limiti territoriali al suo esercizio o meglio alla “deindicizzazione” (Corte giust. 8 aprile 2014, C-293/12 e C-594/12, Digital Rights Ireland Ltd; 13 maggio 2014, C-131/12, Google Spain; 06 ottobre 2015, C-362/14, Schrems (Facebook); 24 settembre 2019, C-507/17, Google CNIL; 03 ottobre 2019, C-18/18, Glawischnig-Piesczek. In dottrina, O. Pollicino, L’“autunno caldo” della Corte di giustizia in tema di tutela dei diritti fondamentali in rete e le sfide del costituzionalismo alle prese con i nuovi poteri privati in ambito digitale, in federalismi.it, n. 19, 2019, p. 2 ss.

[2] Oltre alla Bussola, cit., v. la dichiarazione di Berlino sulla società digitale e su un governo digitale fondato sui valori (8 dicembre 2020) e la dichiarazione di Lisbona - Democrazia digitale con uno scopo, presentata all’Assemblea sul digitale del giugno 2021 (proposta adottata nel settembre 2021 sul Percorso per il decennio digitale).

[3] Come si legge nella Comunicazione: “Tra il 12 maggio e il 6 settembre 2021 la Commissione ha condotto una consultazione pubblica per raccogliere pareri sulla formulazione dei principi digitali europei volti a promuovere e difendere i valori dell’UE nello spazio digitale […]. Nel complesso, dalle consultazioni è emerso un ampio sostegno a favore di una dichiarazione europea sui diritti e i principi digitali nonché della prima serie di principi delineati nella consultazione pubblica aperta, ma è stata anche rilevata l’importanza di alcuni di essi rispetto ad altri e alcuni partecipanti hanno sottolineato la necessità di aggiungere altri principi. Le risposte alle diverse attività di consultazione hanno guidato l’elaborazione della dichiarazione presentata oggi” (p. 5).

[4] A titolo esemplificativo, v. la presa di posizione dell’avvocato generale Kokott, del 26 ottobre 2012, C-370/12, Pringle, punti 142 e 143; Corte giust. 7 febbraio 1973, 39/72, Commissione c. Italia, punto 25; 7 febbraio 1979, 128/78, Commissione c. Regno Unito, punto 12; 6 settembre 2017, C-643/15 e C-647/15, Slovacchia e Ungheria c. Consiglio, spec. punti 291-293; 2 aprile 2020, C‑715/17, C‑718/17 e C‑719/17, Commissione c. Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca (Meccanismo temporaneo di ricollocazione di richiedenti protezione internazionale), punti 80 e 81; 8 ottobre 2020, C‑514/19, Union des industries de la protection des plantes, punto 49; 15 luglio 2021, C-848/19 P, Germania c. Polonia, punti 37-42. In dottrina, v. E. Triggiani, Il principio di solidarietà nell’Unione europea, in Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali, vol. 170, n. 2, 2021, p. 235 ss.; Pi. Mengozzi, Note sul principio di solidarietà nel diritto comunitario, in questa Rivista, n. 1, 2020, p. 99 ss.

[5] Ad esempio, per fabbricare un computer si utilizzano 1,7 tonnellate di materiali, compresi 240 chili di combustibili fossili; internet da sola consuma il 10% dell’elettricità mondiale e rispetto a dieci anni fa inquina sei volte di più, con un monte emissioni che eguaglia oggi quello dell’intero traffico aereo internazionale; mezz’ora di streaming emette quanto dieci chilometri percorsi in automobile; estrarre un dollaro di Bitcoin richiede quattro volte più energia che fabbricarne uno in rame e tre volte uno in oro, etc.

[6] “Software in its very essence ‘deplete the physical world’, since bits presuppose atoms. Still, if we coded better, conducted more rigorous testing and recycled more, it would not, even bringing matters to a head, be physically possible not to consume matter and energy”: C. Gratorp, The materiality of the cloud. On the hard conditions of soft digitization, in eurozine.com, 24 September 2020.

[7] In Italia, v. legge 6 maggio 2021, n. 61, conversione del decreto-legge 13 marzo 2021, n. 30, entrata in vigore il 13 maggio 2021, che ha aggiunto all’art. 2 il comma 1-ter: “Ferma restando, per il pubblico impiego, la disciplina degli istituti del lavoro agile stabilita dai contratti collettivi nazionali, è riconosciuto al lavoratore che svolge l’attività in modalità agile il diritto alla disconnessione dalle strumentazioni tecnologiche e dalle piattaforme informatiche, nel rispetto degli eventuali accordi sottoscritti dalle parti e fatti salvi eventuali periodi di reperibilità concordati. L’esercizio del diritto alla disconnessione, necessario per tutelare i tempi di riposo e la salute del lavoratore, non può avere ripercussioni sul rapporto di lavoro o sui trattamenti retributivi”.