Il Diritto dell'Unione EuropeaEISSN 2465-2474 / ISSN 1125-8551
G. Giappichelli Editore

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Disciplina dei Trattati e prassi evolutiva nelle relazioni internazionali dell'Unione europea (di Maria Eugenia Bartoloni)


Il Trattato di Lisbona, nel difficile compito di ridefinire l’assetto dell’azione esterna dell’Unione, è stato chiamato a coniugare due esigenze non facilmente conciliabili: quella di assicurare unitarietà nella condotta delle relazioni internazionali, da un lato; quella di mantenere una distinzione fra le varie politiche di rilievo esterno, dall’altro. La contestuale presenza di queste due tendenze ha prodotto soluzioni contradditorie, spesso “impraticabili”. Questo scritto esamina gli orientamenti emersi dalla prassi interistituzionale e giurisprudenziale volti ad attenuare le ambiguità del dato normativo. L’analisi è diretta a verificare se l’attuale sistema delle relazioni esterne, come ridisegnato dalla prassi, possa considerarsi coerente, nei suoi presupposti strutturali e funzionali, alla complessiva architettura costituzionale dell’Unione.

Parole chiave: Azione esterna – PESC – Art. 40 TUE – Artt. 21 e 22 TUE – Prassi evolutiva – Corte di giustizia UE.

The EU external relations system between Treaty rules and evolving practice

The Lisbon Treaty, in order to redefine the architecture of EU external relations, was called upon to combine two requirements that were not easy to reconcile: that of ensuring unity in the conduct of international relations, on the one hand; that of maintaining a distinction between the various external policies, on the other. The simultaneous presence of these two tendencies has produced contradictory, often “unworkable” solutions. This paper focuses on the main trends emerging from interinstitutional and judicial practice aimed at mitigating ambiguities in the legal framework. The analysis aims to verify whether the current system of external relations, as reshaped by practice, can be considered consistent, in its structural and functional assumptions, with the overall constitutional architecture of the EU.

Keywords: External action – CFSP – Article 40 TEU – Arts 21 and 22 TEU – Evolving Practice – ECJ.

SOMMARIO:

I. Introduzione - II. Il modello dei Trattati e l’impasse che ne deriva: il paradigma dell’unitarietà - III. Segue: il paradigma della frammentazione - IV. L’impasse superato in via di prassi: le clausole di coordinamento e i regimi integrati - V. Segue: la “riallocazione” di competenze - VI. L’assorbimento degli obiettivi di politica estera nell’ambito delle politiche materiali - VII. La “specializzazione” della PESC - VIII. Considerazioni conclusive - NOTE


I. Introduzione

La disciplina impressa dai Trattati alle relazioni internazionali del­l’Unione, lungi dal realizzare un assetto coerente e unitario di organizzazione del potere estero, evidenzia incertezze sistematiche e soluzioni contraddittorie. Un’analisi, pur veloce, della normativa pertinente mostra che la difficoltà di inquadrare la disciplina sulle relazioni esterne in un modello che assicuri coerenza e efficienza nella condotta dell’UE sul piano internazionale deriva, essenzialmente, dal tentativo – incauto – del Trattato di Lisbona di coniugare due esigenze difficilmente conciliabili: quella di assoggettare la complessiva azione esterna dell’Unione a regole omogenee e uniformi, da una parte; quella di mantenere una distinzione, sia in termini istituzionali sia in termini normativi, fra la Politica estera e di sicurezza comune (PESC) e le altre politiche materiali di rilievo esterno [1], dall’altra. La contestuale presenza di queste due tendenze – la formale separazione tra le politiche materiali e la PESC nell’ambito di un’azione esterna concepita come sostanzialmente unitaria – simboleggia chiaramente le esitazioni teoriche, e non solo, in merito all’architettura da imprimere al sistema delle relazioni esterne [2]. Non sorprende, dunque, che l’“impraticabilità” del modello accolto dai Trattati, costruito su regole ambigue o addirittura contradditorie, avrebbe ne­cessariamente imposto, con le cadenze dettate da un processo d’inte­grazione spesso tortuoso, che un assetto “praticabile” dovesse essere rinvenuto in via di prassi e che, altrettanto necessariamente, la Corte di giustizia fosse chiamata, sulla base di quella prassi, a ridefinire un modello compatibile con i Trattati. Alla luce di queste considerazioni, questo scritto è dedicato ad esaminare le questioni, i dilemmi, le soluzioni che, complessivamente considerati, concorrono a delineare il carattere articolato della disciplina sulle relazioni esterne dell’UE. Si analizzerà, in prima battuta, il modello di relazioni internazionali adottato dai Trattati e l’impasse che ne deriva (paragrafi II e III). Ci si soffermerà, in secondo luogo, sull’esame e sulla ricostruzione degli orientamenti emersi dalla prassi interistituzionale e giurisprudenziale volti ad attenuare le ambiguità del dato normativo (paragrafi IV, V e VI). [continua ..]


II. Il modello dei Trattati e l’impasse che ne deriva: il paradigma dell’unitarietà

Come anticipato, il Trattato di Lisbona non solo ha smantellato la nota struttura “a pilastri” sulla quale, dal Trattato di Maastricht in poi, si fondava il complessivo sistema delle relazioni internazionali dell’UE, ma nell’intento di ricomporre una realtà profondamente frammentata sia sul piano dei rapporti fra Stati membri e Unione, che su quello relativo ai rapporti fra Unione e Comunità, ha accorpato nel Titolo V TUE le disposizioni generali ad essa relative. È noto, infatti, che il processo d’integrazione e con esso il trasferimento di poteri sovrani alla Comunità prima, e all’Unione dopo, aveva imposto, con le cadenze dettate da un processo storico complesso, una realtà fondata sull’esistenza di più enti abilitati ad agire sul piano internazionale. Mentre alla Comunità erano state attribuite competenze di vario genere sul piano delle relazioni esterne – proiezione delle competenze esercitate sul piano interno [3] – soltanto all’Unione era stata assegnata una vera e propria competenza in materia di politica estera e di sicurezza comune al fine di realizzare obiettivi che, pur con un certo grado di approssimazione, possono farsi coincidere con il mantenimento della pace, la prevenzione dei conflitti e il rafforzamento della sicurezza internazionale. La soppressione dei pilastri e la previsione di un Titolo V TUE dedicato alla complessiva “Azione esterna” dell’Unione [4], nel suggerire che vi sono regole destinate ad assicurare un coordinamento generale nell’ambito del potere estero dell’UE, ha quindi l’ambizioso obiettivo di imporre una struttura unificata che disciplini sistematicamente i vari ambiti nei quali si svolge l’azione dell’Unione sul piano internazionale [5]. Questo obiettivo è perseguito attraverso alcuni strumenti generali di coordinamento e unificazione normativa destinati, quindi, ad operare rispetto all’insieme delle politiche che vi sono incluse. Si tratta delle disposizioni racchiuse negli articoli 21 e 22 TUE le quali, al fine di rendere coerenti le varie politiche di rilievo esterno, predeterminano un quadro unitario di principi, finalità, interessi e “strategie” che devono ispirare la complessiva Azione esterna dell’Unione. In particolare, l’art. 21 TUE elenca i principi e gli obiettivi dell’Azione esterna [continua ..]


III. Segue: il paradigma della frammentazione

Tuttavia, quasi a controbilanciare questa spinta unificatrice, il Trattato di Lisbona ha preservato l’esistenza di un doppio apparato istituzionale e normativo, corrispondente agli ex pilastri, mantenendo di fatto inalterata la frammentazione del potere estero dell’Unione. Un’analisi tecnica degli attuali Trattati rivela che essi mantengono sistemi istituzionali e decisionali ben distinti, corrispondenti rispettivamente alla PESC e alle politiche materiali dell’Unione, ai quali corrispondono, a loro volta, due distinti sistemi di fonti e di tutela giurisdizionale. Conviene osservare che la separazione che il Trattato di Lisbona riafferma tra le politiche materiali e la PESC altro non riflette che il diverso grado d’integrazione delle varie politiche dell’Unione. Si comprendono allora le difficoltà, quelle concettuali e quelle pratiche, che sottendono ogni tentativo di stabilire una interconnessione fra queste diverse dimensioni del­l’integrazione europea. Senza voler esaurire l’argomento, che fuoriesce dal­l’oggetto del presente lavoro, conviene solo indicare come la complessità derivi essenzialmente dalla difficoltà di rinvenire temperamenti fra la dimensione sovranazionale, che si riflette nel sistema dato dalle politiche materiali, e quella intergovernativa, che si riflette invece nel sistema istituzionale della PESC. Questa dicotomia, netta e apparentemente insuperabile, costituisce a sua volta il riflesso del differente significato politico che assumono per gli Stati membri le politiche materiali rispetto alla politica estera. Mentre gli Stati hanno voluto conservare un controllo accentrato sulle scelte di politica estera assoggettandole al metodo intergovernativo, le competenze in materia economico-sociale, in quanto assegnate all’integra­zione sovranazionale, sono state invece private della capacità di realizzare obiettivi politici [16]. Per sintetizzare i termini del discorso, si può affermare, pur con un certo grado di semplificazione, che nell’ambito delle politiche materiali il potere decisionale, che si fonda nella generalità dei casi su un voto a maggioranza, è condiviso da Consiglio e Parlamento europeo che deliberano sulla base di una procedura legislativa. La Commissione è pienamente integrata nel procedimento decisionale attraverso il potere di iniziativa legislativa che si rivela, nella maggior [continua ..]


IV. L’impasse superato in via di prassi: le clausole di coordinamento e i regimi integrati

Non sorprende che l’esigenza di superare l’impasse e realizzare un assetto funzionante abbia spinto le istituzioni ad elaborare, in via di fatto, una pluralità di meccanismi tesi ad attenuare la separazione tra la PESC e le politiche materiali. Tra i molteplici strumenti, l’esame della prassi mostra, ad es., l’utilizzo costante di clausole di coordinamento inserite sia in atti fondati sulle politiche materiali che in atti PESC. Clausole siffatte, nell’instaurare un raccordo tra misure adottate in ambiti diversi e separati, svolgono la funzione di coordinare misure che, avendo sfere applicative specifiche e distinte, potrebbero collidere o, quantomeno, essere contraddittorie. Peraltro, clausole del genere, pur essendo volte a rendere coerenti le varie attività di rilievo esterno del­l’Unione, possono essere, per contenuto, formulazione, natura e grado di precettività, assai eterogenee. Da una parte, vi sono clausole dal carattere eminentemente programmatico che, nell’esprimere le finalità politiche, gli obiettivi o le intenzioni del legislatore, stabiliscono in termini assai generici l’esigenza di coerenza tra le varie attività di rilievo esterno [24]. Dall’altra, accanto a queste, non mancano clausole che, per la formulazione precisa, si traducono in prescrizioni puntuali. Clausole del genere, formulate in modo da incidere sull’attività dei destinatari attraverso oneri procedurali o obblighi di condotta, oppure imponendo obblighi di risultato, si risolvono in vere e proprie prescrizioni normative [25]. Ad un’esigenza di coordinamento rispondono anche i c.d. “regimi integrati”. Si tratta di meccanismi normativi che consentono il raccordo della di­mensione PESC con le politiche materiali al fine di disciplinare situazioni complesse. Strumenti del genere, infatti, offrono la possibilità di unificare, in via di fatto, quel che nasce giuridicamente distinto. I “regimi integrati” sono dunque preordinati ad ovviare ai problemi, non solo pratici, determinati dalla separazione tra competenze materiali e politica estera attraverso una disciplina che, fondandosi sull’integrazione delle due dimensioni, ne impedisce le reciproche interferenze. Tra i regimi integrati, l’unico a ricevere formale consacrazione dai Trattati è quello disciplinato dall’art. 215 TFUE in tema di sanzioni [continua ..]


V. Segue: la “riallocazione” di competenze

La manifestazione della prassi che esprime con maggior compiutezza l’esigenza di superare l’impasse della disciplina dei Trattati è peraltro offerta da una sorta di processo di “riallocazione” di competenze tra i due ambiti dell’Azione esterna. Due, in particolare, sono le direttrici che si registrano: l’assorbimento di obiettivi PESC da parte delle competenze materiali; la tendenza delle misure PESC a “specializzarsi”.


VI. L’assorbimento degli obiettivi di politica estera nell’ambito delle politiche materiali

Quanto alla prima, le indicazioni che emergono dalla consistente prassi mostrano in termini inequivoci che le azioni intraprese dall’Unione sulla base delle politiche materiali non si limitano a realizzare gli scopi ad esse riconnessi, ma, in molti casi, sono volte a perseguire anche obiettivi di politica estera e di sicurezza comune. Non si tratta, peraltro, di misure semplicemente ispirate da motivazioni di politica estera; piuttosto, si tratta di provvedimenti che si caratterizzano, nella maggior parte delle ipotesi, per la loro vocazione a realizzare in via principale interessi e scopi di questa natura. Per utilizzare il linguaggio della Corte di giustizia, il “centro di gravità” dell’atto sarebbe sbilanciato verso la componente di politica estera, tale da richiedere una base giuridica PESC. Limitando i riferimenti alla prassi più recente, si pensi, innanzitutto, al regolamento che istituisce il meccanismo per collegare l’Europa. Siffatto regolamento, fondato sulle competenze in materia di coesione economica e sociale e reti transeuropee, disciplina il piano di mobilità militare, rivolto al­l’integrazione delle esigenze di mobilità militare all’interno della mobilità europea [29]. Nell’indicare espressamente che “la politica per le infrastrutture di trasporto offre una chiara opportunità per potenziare le sinergie tra le esigenze di difesa e la TEN-T [rete transeuropea dei trasporti], con l’obiettivo generale di migliorare la mobilità militare in tutta l’Unione” [30], il regolamento si pone come strumento centrale nel rafforzare obiettivi di difesa, quindi obiettivi che rientrano, per definizione, nella PESC. Nella medesima tendenza si inserisce il regolamento che crea il Fondo europeo per la difesa (FED) il quale, basato sulle competenze in materia di politica industriale, è destinato al finanziamento di progetti di ricerca collaborativa nel settore della difesa, nonché, in prospettiva, a realizzare uno sviluppo congiunto di capacità di difesa definite d’accordo tra gli Stati membri [31]. In questa prospettiva, il FED, attraverso l’istituzione di un meccanismo volto a rafforzare le capacità di difesa europee e preordinato a creare uno spazio europeo della difesa, rappresenta uno strumento dalla significativa rilevanza strategica in tema di politica estera [32]. Non [continua ..]


VII. La “specializzazione” della PESC

Quanto alla seconda tendenza – la “specializzazione” della PESC – l’analisi della prassi sembra segnalare che le azioni intraprese in quest’am­bito, lungi dal rivestire un ruolo a carattere generale nel perseguimento e nell’attuazione degli obiettivi di politica estera, si caratterizzano per misure dal contenuto ben circoscritto. Per limitarci alla prassi più recente, le decisioni PESC riguardano, nella maggior parte dei casi, settori assai specifici: tra gli altri, la determinazione di misure restrittive nei confronti di Stati o persone fisiche e giuridiche [40]; l’istituzione di missioni di polizia o militari [41]; la nomina di rappresentanti speciali, capi missione o comandanti di forze militari [42]; la lotta contro la proliferazione delle armi di distruzione di massa [43]; da ultimo, la fornitura di armi a Stati terzi [44]. Al di là del carattere esemplificativo di questa elencazione, ciò che conta rilevare è che le varie misure deliberate sulla base delle competenze PESC non sono volte a definire l’approccio globale dell’Unione in relazione a questioni di natura geografica o tematica, ma riguardano questioni determinate e, in principio, ben circoscritte [45]. La Corte di giustizia, da parte sua, sembrerebbe prendere atto della progressiva trasformazione della PESC da politica generale a politica settoriale facendo intendere che quest’ultima può essere utilmente utilizzata solo per l’adozione di misure specifiche le quali, per la loro caratterizzazione intrinsecamente politica, ricadono in re ipsa nell’ambito della PESC [46]. Il ricorso alla competenza nel settore della PESC sarebbe, invece, precluso per l’adozione di disposizioni che “si limitano essenzialmente a dichiarazioni delle parti contraenti di carattere programmatico, […], senza stabilire un programma d’azione o determinare le modalità concrete della loro cooperazione” [47]. Ancorché i criteri che fanno riferimento all’intrinseca “politicità” di una misura e al “carattere concreto” di questa siano per molti versi discutibili, queste indicazioni sembrano sufficientemente chiare per delineare il ruolo svolto rispettivamente dalle competenze materiali e dalla PESC nell’at­tuazione della politica estera dell’Unione. Mentre le attribuzioni [continua ..]


VIII. Considerazioni conclusive

Da un punto di vista sistematico, questa sorta di “riallocazione” di competenze tra le politiche materiali e la PESC nell’attuazione della politica estera non solo ha l’effetto di compromettere, alla radice, il disegno distributivo operato dai Trattati, ma produce altresì profonde conseguenze sull’as­setto costituzionale dell’Unione sotteso a quel disegno. Come già indicato, all’origine della netta separazione tra le competenze materiali e la PESC v’è l’esigenza di sottrarre alle logiche proprie della dimensione sovranazionale la determinazione e l’attuazione degli orientamenti e delle priorità di politica estera e di assegnarle, invece, ad una forma di cooperazione meno invasiva della sovranità statale qual è quella di stampo intergovernativo. Più precisamente, la netta separazione tra competenze materiali e PESC risponde, come si è visto, ad un disegno politico preciso, consistente nell’evitare che l’Unio­ne possa agire come ente libero nei fini e determinare, quindi, liberamente gli obiettivi della propria azione. La distinzione fra “Unione economica” e “Unione politica”, per quanto artificiale, ha lo scopo di mantenere inalterato in capo agli Stati membri il potere di definire gli orientamenti politici di fon­do dell’Unione. L’affermazione, allora, di un ruolo preponderante delle politiche materiali nell’attuazione della politica estera, e il passaggio di molte delle scelte politiche nell’ambito della dimensione sovranazionale, scardina quel modello e altera senza alcun dubbio l’architettura costituzionale implicita in esso. La politica estera, attraverso un processo graduale di assorbimento nell’ambito delle competenze materiali, da politica eminentemente a carattere intergovernativo si trasforma in una politica dall’accentuata dimensione sovranazionale. La rottura rispetto all’originario assetto costituzionale non potrebbe essere più netta. Questa osservazione potrebbe allora indicare che il modello fondato sulla coesistenza di due concezioni antitetiche dell’integrazione – quella a vocazione sovranazionale e quella a vocazione intergovernativa – sia destinato ad essere rimpiazzato da un modello costituzionale a prevalente vocazione sovranazionale. Ma anche questa conclusione, pur incontestabile nella sua logica [continua ..]


NOTE