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Il divieto di discriminazioni fondate sulla religione nella giurisprudenza della Corte di giustizia
Fabio Spitaleri
Il presente articolo si propone di esaminare la giurisprudenza ‒ elaborata dalla Corte di giustizia dopo l'adozione della direttiva 2000/78 ‒ in materia di discriminazioni fondate sulla religione o sulle convinzioni personali nell'ambito dei rapporti di lavoro. Dopo l'illustrazione del quadro giuridico rilevante, l'articolo considera la giurisprudenza relativa al divieto di indossare simboli religiosi. Il lavoro cerca di chiarire se la prassi di un'impresa che vieta ai lavoratori di esibire segni visibili di carattere politico, filosofico o religioso costituisca una discriminazione diretta, indiretta o intersezionale. Inoltre, l'articolo individua le finalità legittime che possono giustificare una misura di questo tipo e specifica quando essa può essere considerata appropriata e necessaria ai sensi della direttiva 2000/78. Infine, il lavoro valuta se una caratteristica legata alla religione o alle convinzioni personali possa essere ritenuta un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento di un'attività lavorativa, in generale e nello specifico contesto delle c.d. organizzazioni di tendenza.
Parole chiave: Religione – Discriminazione – Direttiva 2000/78 – Eguaglianza – Principio generale – Divieto di indossare simboli religiosi sul luogo di lavoro – Velo islamico – Organizzazioni di tendenza.
The aim of this paper is to examine the case law on religious discrimination in the workplace, developed by the Court of Justice since the adoption of Directive 2000/78. After an overview of the EU legal framework for combating discrimination on the grounds of religion or belief, the paper analyses the case law on the ban on wearing religious symbols at work. The paper seeks to clarify whether an internal rule of an undertaking prohibiting workers to wear visible signs of political, philosophical or religious beliefs constitutes direct, indirect or intersectional discrimination. Furthermore, the paper identifies the legitimate aims that may justify such a measure and specifies when it may be considered appropriate and necessary within the meaning of Directive 2000/78. Finally, the paper assesses whether a characteristic related to religion or belief can be regarded as a genuine and determining occupational requirement, in general and in the specific context of the so-called faith-based employers.
Keywords: Religion – Discrimination – Directive 2000/78 – Equality – General Principle – Ban on wearing religious symbols at work – Islamic headscarf – Faith-based employers.
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Sommario:
I. Introduzione: il contrasto alle discriminazioni fondate sulla religione nell’ambito dei rapporti di lavoro - II. Quadro normativo: la direttiva 2000/78 - III. Segue: l’interazione tra la direttiva 2000/78 e il principio generale di non discriminazione - IV. Il divieto di indossare il velo durante l’orario di lavoro: una discriminazione fondata sul genere, sulla religione o una discriminazione intersezionale? - V. Il divieto di esibire simboli politici, filosofici e religiosi: una discriminazione diretta o indiretta? - VI. Segue: la possibilità di giustificare il divieto: finalità legittime e proporzionalità - VII. La configurabilità della religione come requisito essenziale e determinante per lo svolgimento di un’attività lavorativa - VIII. Libertà religiosa e dovere di adesione all’etica delle organizzazioni di tendenza - IX. Conclusioni - NOTE
I. Introduzione: il contrasto alle discriminazioni fondate sulla religione nell’ambito dei rapporti di lavoro
Il contrasto alle discriminazioni fondate sulla religione, nell’ambito dei rapporti di lavoro [1], è oggetto di una disciplina abbastanza recente dell’Unione europea. Fino al 2000, il diritto comunitario era focalizzato sul divieto di quelle discriminazioni che potevano rappresentare un ostacolo al funzionamento del mercato comune o che potevano incidere sulla politica sociale delle Comunità. Le discriminazioni basate sulla nazionalità e le discriminazioni di genere nell’ambito dei rapporti di lavoro erano oggetto di specifici divieti contenuti nei Trattati e nel diritto derivato. L’azione delle Comunità e la giurisprudenza della Corte di giustizia erano concentrate soprattutto su queste forme di discriminazione. Già sul finire degli anni ’70, la Corte di giustizia ha però riconosciuto che il sistema giuridico comunitario include un principio generale di non discriminazione [2]. Le singole disposizioni che recano specifici divieti sono state considerate come espressione di un principio di più ampia portata, il quale vieta di trattare in maniera diversa situazioni analoghe (o allo stesso modo situazioni oggettivamente diverse), a meno che la normativa o la prassi contestata sia giustificata da una finalità legittima e rispetti il principio di proporzionalità [3]. Tuttavia, il riconoscimento di questo principio ha modificato solo in parte la situazione precedente. In effetti, la portata dei principi generali era, ed è tuttora, limitata alle fattispecie che rientrano nel campo di applicazione del diritto dell’Unione europea. Ciò implica che le normative e le prassi degli Stati membri possono essere sindacate alla luce di un principio generale, soltanto nei casi in cui esse danno attuazione a una disposizione dell’Unione o incidono su materie disciplinate dai Trattati o dal diritto derivato [4]. Fino al 2000, non essendovi atti di diritto derivato in tema di lotta alle discriminazioni fondate sulla religione, il principio generale di eguaglianza non poteva essere utilizzato per sindacare le normative e le prassi interne, che prevedevano o autorizzavano queste forme di discriminazione. Nell’ordinamento comunitario esisteva pertanto un principio generale, ma la sua portata non consentiva di giudicare le normative degli Stati membri sospettate di introdurre discriminazioni basate sulla religione. La [continua ..]
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II. Quadro normativo: la direttiva 2000/78
La direttiva 2000/78 è fondata sull’art. 13 TCE (divenuto ora art. 19 TFUE). In origine questa base giuridica non era contenuta nei Trattati. Essa è stata inserita nel TCE dal Trattato di Amsterdam, entrato in vigore il 1º maggio 1999. A seguito di questa revisione, l’art. 13 TCE (divenuto ora art. 19 TFUE) autorizza il Consiglio ad adottare misure volte a combattere contro le discriminazioni fondate sul sesso, la religione e le convinzioni personali, la razza e l’origine etnica, la disabilità, l’età e l’orientamento sessuale [8] -[9]. Ricorrendo a questa base giuridica, il Consiglio ha potuto adottare appositi atti che hanno disciplinato forme di discriminazione in precedenza non considerate nei Trattati e nel diritto derivato [10]. Tra le misure approvate vi è appunto la direttiva 2000/78. Questa direttiva contiene diverse disposizioni che riguardano le discriminazioni basate sulla religione. Ai fini della presente analisi, è importante ricordarne alcune. La prima è quella che definisce, in via generale, la nozione di discriminazione diretta e indiretta. È utile richiamare fin d’ora questa disposizione, in quanto essa ha assunto una rilevanza particolare nelle cause in cui la Corte di giustizia ha valutato se il divieto di esibire segni religiosi sul posto di lavoro costituisca una discriminazione; se questa discriminazione sia diretta o indiretta; e a quali condizioni essa possa essere giustificata (v. infra par. V e VI). L’art. 2, par. 2, lett. a), stabilisce che una discriminazione diretta sussiste «quando, sulla base di uno qualsiasi dei motivi di cui all’articolo 1», tra i quali vi sono la religione e le convinzioni personali, «una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga». L’elemento che caratterizza la discriminazione diretta è rappresentato, quindi, dal fatto che una disparità di trattamento, tra situazioni analoghe, è fondata direttamente su un motivo di distinzione considerato dalla direttiva o su una caratteristica inscindibilmente legata a uno di questi motivi [11]. Si tratta sostanzialmente della definizione classica che codifica la giurisprudenza della Corte di giustizia. Ai sensi dell’art. 2, par. 2, lett. b), una discriminazione indiretta ricorre, invece, [continua ..]
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III. Segue: l’interazione tra la direttiva 2000/78 e il principio generale di non discriminazione
L’illustrazione del quadro normativo in materia di discriminazioni fondate sulla religione non sarebbe completa, ai fini della nostra analisi, se non venisse spiegata l’interazione tra la direttiva 2000/78 e il principio generale di non discriminazione. L’interazione tra queste due fonti è emersa grazie alla giurisprudenza della Corte di giustizia in materia di discriminazioni in base all’età [16] e a quella, che viene considerata nel presente lavoro, relativa alle discriminazioni fondate sulla religione o sulle convinzioni personali [17]. Come si è detto sopra, la direttiva 2000/78 ha avuto un’importanza fondamentale nell’evoluzione del diritto antidiscriminatorio dell’Unione europea, in quanto ha disciplinato nuove forme di discriminazione, riconducendole al campo di applicazione dei Trattati. La direttiva subisce però due limiti, che vanno presi in considerazione. Il primo è un limite specifico della direttiva 2000/78. La Corte di giustizia ha sottolineato che quest’ultima «non sancisce essa stessa il principio della parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, il quale trova la sua fonte in diversi atti internazionali e nelle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, ma ha il solo obiettivo di stabilire, in queste stesse materie, un quadro generale per la lotta alle discriminazioni fondate su diversi motivi, tra i quali la religione o le convinzioni personali, come risulta dal titolo e dall’articolo 1 della medesima» [18]. In altri termini, la direttiva 2000/78 contiene diverse disposizioni, di carattere sostanziale e processuale, dirette a rafforzare il contrasto alle forme di discriminazione considerate. La direttiva non vieta però essa stessa queste discriminazioni. Il divieto in questione discende dal principio generale di non discriminazione, ora codificato nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (nel prosieguo, anche la «Carta»), all’art. 21. In tal senso, la Corte ha sostenuto che il «divieto di qualsiasi discriminazione fondata sulla religione o sulle convinzioni personali riveste carattere imperativo in quanto principio generale del diritto dell’Unione ora sancito dall’articolo 21 della Carta» [19]. La censura delle discriminazioni in questione va quindi fondata, nell’ordinamento [continua ..]
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IV. Il divieto di indossare il velo durante l’orario di lavoro: una discriminazione fondata sul genere, sulla religione o una discriminazione intersezionale?
Il divieto di esibire simboli politici, filosofici o religiosi sul posto di lavoro solleva numerose questioni di primaria importanza. L’accettazione o il rifiuto di questo divieto contribuisce alla configurazione complessiva di una Comunità, in un senso che tutela maggiormente la libertà individuale e il pluralismo oppure in una direzione che enfatizza la laicità dello Stato e le politiche di neutralità. Inoltre, come spesso accade quando entrano in gioco i diritti fondamentali, il tema in esame pone delicati problemi di bilanciamento tra diversi principi: la libertà di pensiero, di coscienza e religiosa, che è uno dei pilastri delle società democratiche [22], si confronta con la libertà dell’impresa e con il potere direttivo del datore di lavoro. Quest’ultimo potrebbe avere interesse a limitare la manifestazione delle convinzioni religiose o personali dei lavoratori, al fine di salvaguardare un ambiente di lavoro sereno o al fine di evitare il rischio di perdere clienti che non condividono certe convinzioni. Come sempre avviene in tema di diritti fondamentali, il giudizio sulla proporzionalità delle limitazioni imposte finisce per essere determinante. Questo giudizio implica una «conciliazione tra i requisiti connessi alla tutela dei diversi diritti e principi in discussione» e l’individuazione di «un giusto equilibrio» tra questi [23]. Com’è noto, l’operazione di bilanciamento non è facile, varia da caso a caso e può mutare nel tempo. Nei casi oggetto del presente lavoro, la difficoltà di questo bilanciamento risulta accresciuta dall’estrema diversità degli approcci seguiti dagli Stati membri per la conciliazione della libertà religiosa con il principio di laicità dello Stato [24]- [25]. In via generale, va sottolineato che i limiti all’esibizione di segni politici, filosofici e religiosi incidono su libertà fondamentali, come la libertà di pensiero, di coscienza e religiosa, e richiedono pertanto uno scrutinio rigoroso. Nel suo complesso, l’approccio della Corte di giustizia è in linea con questa impostazione generale. Vedremo tuttavia che alcuni punti della giurisprudenza meriterebbero di essere chiariti. I casi considerati dalla Corte hanno riguardato, in particolare, l’applicazione del divieto di esibire [continua ..]
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V. Il divieto di esibire simboli politici, filosofici e religiosi: una discriminazione diretta o indiretta?
L’ulteriore problema che deve essere considerato è se il divieto in esame rappresenti una discriminazione diretta o indiretta. La Corte di giustizia si è soffermata molto su tale questione nelle sue sentenze. Come si è detto sopra, la distinzione è molto importante perché una discriminazione diretta può essere giustificata soltanto sulla base di una deroga espressamente prevista da una disposizione di diritto dell’Unione europea, mentre una discriminazione indiretta può essere giustificata dal perseguimento di una qualsiasi finalità legittima, a condizione che i mezzi impiegati per il conseguimento di questa finalità siano appropriati e necessari. Va subito detto che la risposta al quesito dipende, anzitutto, da come il datore di lavoro formula il divieto di ostentare segni politici, filosofici o religiosi. Non c’è dubbio che una prassi che vietasse soltanto il velo islamico costituirebbe una discriminazione diretta, ai sensi dell’art. 2, par. 2, lett. a), della direttiva 2000/78. Una prassi del genere istituirebbe una differenza di trattamento basata su un criterio inscindibilmente legato alla religione musulmana e, quindi, discriminerebbe palesemente i dipendenti che professano questa fede [37]. Tuttavia, finora la Corte di giustizia non si è dovuta confrontare con situazioni così evidenti, che tutto sommato sarebbero state di facile soluzione. Infatti, nelle fattispecie da essa esaminate, le indicazioni dei datori di lavoro erano formulate in maniera più ampia. In un caso, l’impresa aveva vietato di ostentare segni di grandi dimensioni che esprimevano convinzioni politiche, filosofiche o religiose [38]; in altri casi, aveva vietato qualsiasi segno o simbolo di questo tipo [39]. Come vedremo più avanti, in un altro caso ancora la portata della politica aziendale non era chiara [40]. In queste situazioni, la classificazione della discriminazione, come diretta o indiretta, risulta assai complessa. A tal riguardo possono essere avanzate tesi diverse. L’orientamento maggioritario della dottrina è indirizzato nel senso che il divieto di indossare simboli politici, filosofici e religiosi implicherebbe, inevitabilmente, una discriminazione diretta, in quanto farebbe riferimento alla religione e alle convinzioni personali, come criterio di distinzione [41]. Questa tesi si basa su una [continua ..]
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VI. Segue: la possibilità di giustificare il divieto: finalità legittime e proporzionalità
La giurisprudenza della Corte di giustizia ha individuato le finalità legittime che possono giustificare, nell’ambito dei rapporti di lavoro tra privati, il divieto di esibire simboli politici, filosofici e religiosi; inoltre, la Corte ha definito le condizioni da rispettare, affinché i mezzi impiegati dal datore di lavoro possano essere giudicati appropriati e necessari. È interessante sottolineare che la giurisprudenza ha progressivamente ristretto i margini di azione delle imprese. Vanno in particolare ricordate le sentenze G4S Secure Solutions, del 14 marzo 2017 [50], e WABE, del 15 luglio 2021 [51]. I requisiti fissati nella prima sentenza sono stati precisati, in un senso più restrittivo, nella seconda [52]. Detto in altri termini, con la sentenza WABE la Corte ha corretto il tiro, precisando l’orientamento inziale, che era stato fortemente criticato in dottrina, in quanto eccessivamente permissivo [53]. Questa dinamica di fissazione, in prima battuta, di condizioni meno restrittive, e di ulteriore irrigidimento delle stesse, si riscontra sia in relazione al presupposto della finalità legittima che con riguardo al test di proporzionalità. Di recente, la Corte ha pronunciato la sentenza S.C.R.L., che conferma quanto già stabilito nelle sue precedenti decisioni [54]. Nella sentenza G4S Secure Solutions, la Corte ha affermato che una finalità legittima può essere costituita dalla «volontà» del datore di lavoro «di mostrare, nei rapporti con i clienti sia pubblici che privati, una politica di neutralità politica, filosofica o religiosa» [55]. La Corte ha sottolineato che questa scelta «rientra nella libertà d’impresa, riconosciuta dall’articolo 16 della Carta, ed ha, in linea di principio, carattere legittimo, in particolare qualora il datore di lavoro coinvolga nel perseguimento di tale obiettivo soltanto i dipendenti che si suppone entrino in contatto con i clienti del medesimo» [56]. La scelta di fornire ai clienti un’immagine laica e neutrale dell’impresa è considerata una finalità legittima, in grado di giustificare una discriminazione indiretta. Nel successivo caso WABE, la Corte ha individuato una seconda finalità legittima consistente nello «scopo di prevenire conflitti sociali all’interno di [continua ..]
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VII. La configurabilità della religione come requisito essenziale e determinante per lo svolgimento di un’attività lavorativa
La direttiva 2000/78 contiene numerose deroghe al divieto di discriminazioni fondate sui motivi indicati all’art. 1. Come si è detto sopra, le deroghe assumono un rilievo particolare in relazione alle discriminazioni dirette. Infatti, quest’ultime sono in quanto tali proibite dal diritto dell’Unione europea e sfuggono al divieto di discriminazioni soltanto se giustificate alla luce di una specifica disposizione, prevista da una fonte primaria o da un atto di diritto derivato. Con riguardo alle discriminazioni fondate sulla religione o sulle convinzioni personali, è importante richiamare due disposizioni della direttiva 2000/78: l’art. 4, par. 1, che prenderemo in considerazione nel presente paragrafo, e l’art. 4, par. 2, che esamineremo in quello successivo. Come si è visto sopra, l’art. 4, par. 1, stabilisce che una differenza di trattamento basata su una caratteristica correlata a uno dei motivi previsti dall’art. 1 (tra i quali vi sono la religione e le convinzioni personali) non dà luogo a una discriminazione, quando tale caratteristica «per la natura di un’attività lavorativa o per il contesto in cui essa viene espletata» rappresenta un «requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa, purché la finalità sia legittima e il requisito proporzionato» [71]. Finora, la giurisprudenza della Corte di giustizia ha considerato la deroga di cui all’art. 4, par. 1, prevalentemente in casi in cui gli interessati lamentavano discriminazioni in base all’età. La Corte è stata chiamata a valutare la compatibilità con il diritto dell’Unione europea di normative interne che fissavano una soglia d’età massima per l’assunzione nel corpo dei vigili del fuoco [72], nella polizia municipale [73] e nelle forze di polizia [74], nonché per lo svolgimento dell’attività di pilota [75]. In due casi, la deroga è stata applicata a discriminazioni fondate sulla disabilità [76]. Soltanto in un caso la Corte ha interpretato la disposizione citata in relazione a discriminazioni basate sulla religione o sulle convinzioni personali. Si tratta della sentenza Bougnaoui [77]. In questo caso, una dipendente di fede islamica era stata licenziata, perché si rifiutava di [continua ..]
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VIII. Libertà religiosa e dovere di adesione all’etica delle organizzazioni di tendenza
L’art. 4, par. 2, della direttiva 2000/78 riconosce il diritto delle chiese e delle altre organizzazioni, pubbliche o private, la cui etica è fondata sulla religione o sulle convinzioni personali (c.d. organizzazioni di tendenza), di esigere dai loro dipendenti «un atteggiamento di buona fede e di lealtà nei confronti dell’etica dell’organizzazione» [85]. Inoltre, questa disposizione autorizza gli Stati membri a mantenere, o a prevedere, disposizioni speciali relative a queste organizzazioni, in forza delle quali una differenza di trattamento basata sulla religione o sulle convinzioni personali non costituisce discriminazione «laddove, per la natura di tali attività, o per il contesto in cui vengono espletate, la religione o le convinzioni personali rappresentino un requisito essenziale, legittimo e giustificato per lo svolgimento dell’attività lavorativa, tenuto conto dell’etica dell’organizzazione» [86]. Lo scopo di questa disposizione è garantire un «giusto equilibrio» tra, da un lato, «il diritto all’autonomia» delle Chiese e delle altre organizzazioni di tendenza (riconosciuto dall’art. 17 TFUE e dall’art. 10 della Carta) e, dall’altro, il diritto dei lavoratori di non essere discriminati in base alla loro religione o alle loro convinzioni personali. L’art. 4, par. 2, fissa i criteri da prendere in considerazione per svolgere questo bilanciamento, nei casi in cui «tali diritti possono essere concorrenti» [87]. La Corte ha interpretato la disposizione citata in due casi: il caso Egenberger e il caso IR. Il primo riguardava un’offerta di lavoro pubblicata da una Chiesa evangelica tedesca per la ricerca di una persona da impiegare nella redazione di uno studio in materia di diritti fondamentali. L’avviso richiedeva l’adesione a una Chiesa evangelica. La candidatura della signora Egenberger, che dichiarava di non appartenere ad alcuna confessione religiosa, non era stata presa in considerazione [88]. Il secondo caso traeva origine dal licenziamento di un medico, impiegato presso un ospedale gestito un’organizzazione tedesca legata alla Chiesa cattolica, dopo che il dipendente aveva divorziato e celebrato un nuovo matrimonio con rito civile [89]. Un primo dubbio che la Corte ha dovuto sciogliere è se, in casi del genere, il [continua ..]
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IX. Conclusioni
Venendo alle conclusioni, si può dire che il sindacato sulle discriminazioni fondate sulla religione o sulle convinzioni personali, nell’ambito dei rapporti di lavoro, implica un bilanciamento tra diritti e principi di primaria importanza. I risultati di questo bilanciamento incidono sulla configurazione complessiva dell’ordinamento, in un senso che tutela maggiormente la libertà individuale e il pluralismo oppure in una direzione che enfatizza la laicità dello Stato e le politiche di neutralità. Dal presente studio, è emerso che l’approccio della Corte di giustizia ha privilegiato la libertà di pensiero, di coscienza e religiosa rispetto alla libertà d’impresa. Nel complesso, anche a seguito di correttivi apportati nel tempo, il sindacato sulle normative e prassi interne potenzialmente discriminatorie è stato rigoroso. Questa tendenza si riscontra già con riguardo alla qualificazione, come discriminazione diretta o indiretta, del divieto di esibire segni politici, filosofici o religiosi durante l’orario di lavoro. La Corte ha limitato il concetto di discriminazione indiretta ai casi in cui il divieto imposto dal datore di lavoro riguarda qualsiasi forma visibile di espressione delle convinzioni politiche, filosofiche o religiose. Solo un divieto enunciato e applicato in modo generale è stato valutato secondo il test meno restrittivo previsto per le discriminazioni indirette. La limitazione del divieto ad alcune categorie di segni è stata, invece, considerata una discriminazione diretta, in via di principio vietata. Inoltre, dalle considerazioni sopra esposte è emerso che i margini per imporre ai dipendenti il divieto in questione sono molto ristretti. Il divieto di esibire segni politici, filosofici o religiosi deve essere generalizzato; deve perseguire una finalità legittima, come la presentazione dell’impresa in modo neutrale nei confronti dei clienti o la prevenzione dei conflitti nell’impresa; deve essere fondato su un’esigenza reale del datore di lavoro, che quest’ultimo è tenuto a dimostrare; deve essere applicato in modo sistematico e indifferenziato; la violazione di questo divieto può comportare il licenziamento del lavoratore soltanto in casi del tutto eccezionali e come extrema ratio, dopo aver cercato con il lavoratore stesso un accomodamento ragionevole. Nella giurisprudenza [continua ..]
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NOTE