Il Diritto dell'Unione EuropeaEISSN 2465-2474 / ISSN 1125-8551
G. Giappichelli Editore

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Gli effetti diretti e il primato del diritto dell'Unione: una correlazione a geometria variabile (di Aurora Rasi, Assegnista di ricerca in Diritto dell’Unione europea, Università “La Sapienza” di Roma.)


Nella giurisprudenza classica della Corte di giustizia dell’Unione europea, la dottrina degli effetti diretti sembra limitare per taluni aspetti quella del primato: solo le norme europee direttamente efficaci potrebbero invero comportare il più radicale degli effetti del primato del diritto dell’Unione, vale a dire l’inapplicabilità delle norme nazionali confliggenti. Emerge peraltro dalla giurisprudenza della Corte come tale effetto sia prodotto non soltanto da singole disposizioni europee chiare, precise ed incondizionate, ma anche da sistemi normativi che, osservati alla stregua di un unicum, presentino i medesimi caratteri. Nelle sentenze Taricco (8 settembre 2015, C-105/14), M.A.S. e M.B. (5 dicembre 2017, C-42/17) e Kolev (5 giugno 2018, C-612/15) la Corte di giustizia sembra avere sviluppato ulteriormente la dottrina degli effetti diretti e, conseguentemente, i suoi riflessi sulla dottrina del primato. In tali pronunce la Corte sembra infatti avere riconosciuto la diretta efficacia, e dunque la capacità d’imporre la disapplicazione delle norme nazionali confliggenti, di sistemi composti da una norma europea e da una norma nazionale. Proprio i contenuti e le conseguenze teoriche e pratiche degli sviluppi recenti della dottrina degli effetti diretti sono oggetto di discussione nel presente scritto.

Notoriously, the doctrine of direct effect has been used in the classical case law of the Court of Justice of the European Union as a sort of limit to the most radical effect of the doctrine of the primacy of EU law: only European provisions clear and unconditional impose on National judges the duty to set aside inconsistent National law. In the subsequent case law, the notion of direct effect has been significantly enlarged so as to include the effects that may be produced not only by single EU law provisions, but also by normative systems composed of individual EU rules that, by themselves, would hardly produce direct effects. In Taricco (8 September 2015, C-105/14), M.A.S. and M.B. (5 December 2017, C-42/17) and Kolev (5 June 2018, C-612/15) the Court of Justice went a step further and found that EU rules imposing an obligation of result, duly implemented by National provisions, can nonetheless be considered to produce direct effect and, therefore, to entail the obligation for National judges to set aside inconsistent National law. The theoretical and practical consequences of what appears to be a new development in an old doctrine are discussed in the Article.

SOMMARIO:

I. L’effetto diretto quale limite alla configurabilità dell’obbligo di disapplicazione. - II. Le recenti pronunce della Corte di giustizia in tema di primato: quale ruolo per gli effetti diretti? - III. Il conflitto normativo tipico quale espressione della prassi maggioritaria. - IV. Il conflitto normativo atipico quale espressione della prassi minoritaria. - V. Il conflitto normativo atipico nelle pronunce recenti. - VI. Conclusioni. - NOTE


I. L’effetto diretto quale limite alla configurabilità dell’obbligo di disapplicazione.

È noto come lo sviluppo della dimensione giuridica dell’integrazione europea sia stato favorito dall’elaborazione di due grandi dottrine giurisprudenziali: la dottrina degli effetti diretti e quella del primato del diritto del­l’Unione europea. Inizialmente elaborata nella sentenza Van Gend en Loos, la dottrina degli effetti diretti ha teso a svincolare il diritto dell’Unione dalle categorie internazionalistiche ed a conferire ad esso la capacità di operare negli ordinamenti nazionali, e di realizzare i propri obiettivi, senza dipendere dagli atti di recepimento (non) emanati dagli Stati membri. Difatti, dopo aver premesso che la natura giuridica dei Trattati istitutivi «va al di là di un accordo che si limitasse a creare degli obblighi reciproci fra gli Stati contraenti», la sentenza Van Gend en Loos ha indicato come talune norme dell’Unione, ossia quelle che stabiliscono obblighi chiari, precisi ed incondizionati nei confronti degli Stati, per l’adempimento dei quali non sia necessario alcun provvedimento nazionale, «attribuisc[ono] ai singoli dei diritti soggettivi» [1]. Gli Stati hanno peraltro l’obbligo di rispettare tali diritti soggettivi quale che sia la loro normativa interna: in particolare, precisava la Corte in Van Gend en Loos, «i giudici nazionali sono tenuti a tutelar[li]» [2]. È peraltro noto come ulteriori acquisizioni giurisprudenziali abbiano precisato e sviluppato la nozione di norma avente effetti diretti. Ad esempio, l’idoneità a produrre effetti diretti è stata riconosciuta anche a norme contenute in fonti diverse dai Trattati istitutivi, come le direttive una volta spirato il termine per la loro attuazione; inoltre, la Corte ha riconosciuto che il diritto primario dell’Unione possa, per effetto diretto, porre nella sfera giuridica dei singoli non soltanto delle posizioni giuridiche di vantaggio ma pure di svantaggio [3]. Occorre però considerare che la dottrina degli effetti diretti, ancorché tesa ad accrescere notevolmente l’effettività delle norme europee, potrebbe non essere sufficiente a garantire la possibilità, per i privati, di esercitare le posizioni soggettive derivanti dal diritto europeo. Si pensi al caso in cui il diritto nazionale proibisse la realizzazione delle condotte cui desse invece diritto la norma europea [continua ..]


II. Le recenti pronunce della Corte di giustizia in tema di primato: quale ruolo per gli effetti diretti?

La funzione di limite, svolta dalla dottrina degli effetti diretti rispetto all’applicazione del principio del primato,sembra entrare in crisi in talune recenti pronunce, fra le quali conviene menzionare le sentenze Taricco, M.A.S. e M.B. e Kolev, pronunciate dalla Grande sezione della Corte di giustizia rispettivamente nel settembre del 2015, nel dicembre del 2017 e nel giugno del 2018 [13]. È utile ripercorrere, in via preliminare, le questioni giuridiche affrontate dalla Corte nei diversi casi. Nelle prime due pronunce la Corte di giustizia era chiamata ad interpretare l’art. 325 TFUE al fine di verificarne la compatibilità con l’art. 161, com­ma 2, del codice penale italiano, interpretato in combinato disposto con gli artt. 157 ss. della stessa legge (d’ora in poi, l’art. 161 c.p.) [14]. Tra le altre cose, l’art. 325 TFUE prevede che gli Stati membri «combattono contro la frode [fiscale in materia di IVA] e le altre attività illegali che ledono gli interessi finanziari dell’Unione […] mediante misure […] dissuasive e tali da permettere una protezione efficace» [15]. Specificava la Corte come tale norma ponga a carico degli Stati membri «un obbligo di risultato preciso e non accompagnato da alcuna condizione»; si tratta, in particolare, dell’obbligo di «assicurarsi che, nei casi di frode grave che ledono gli interessi finanziari dell’Unio­ne in materia di IVA, siano adottate sanzioni penali dotate di carattere effettivo e dissuasivo» [16]. In quanto norma dell’Unione europea, l’art. 325 TFUE è senz’altro preminente rispetto a tutte le norme nazionali. Inoltre, la Corte precisava come detta norma comporti l’inapplicabilità delle norme nazionali con essa in conflitto. Invero la Corte specificava a chiare lettere come, «[i]n forza del principio del primato del diritto dell’Unione», l’art. 325 TFUE produca «l’ef­fetto, nei [suoi] rapporti con il diritto interno degli Stati membri, di rendere ipso iure inapplicabile […] qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale esistente» [17]. Oggetto di attenzione della Corte era peraltro una disposizione nazionale il cui conflitto con l’art. 325 TFUE non emerge certo a prima vista: l’art. 161 c.p. Quest’ultimo [continua ..]


III. Il conflitto normativo tipico quale espressione della prassi maggioritaria.

Come già accennato, il modello che emerge dalla giurisprudenza classica limita la configurazione dell’obbligo di disapplicazione in capo al giudice nazionale ai soli conflitti fra la normativa nazionale e la normativa europea avente effetti diretti. Tale modello, al quale daremo il nome di modello del conflitto normativo tipico, è quello utilizzato ancor oggi con maggior frequenza dalla Corte di giustizia. Qualche esempio, tratto dalla giurisprudenza recente, chiarirà questo assunto. Nel caso S., ad esempio, veniva in rilievo il conflitto tra una norma europea che garantiva ai singoli il diritto di interpellare direttamente il giudice competente in materia di crediti alimentari e una norma nazionale che, invece, proibiva agli individui di realizzare proprio tale comportamento [30]. Un ulteriore esempio di tale modello viene dal caso Vital Pérez, in tema di discriminazione dei lavoratori sulla base della loro età, nel quale la Corte identificava un contrasto tra il diritto dell’Unione ed una norma spagnola. Quest’ultima stabiliva, quale condizione per entrare a far parte del corpo di polizia locale, di non aver superato i trenta anni di età. Detta norma confliggeva, a parere della Corte di giustizia, con alcune norme della direttiva 2000/78/CE che garantivano, invece, il diritto di ciascun individuo che intendesse svolgere un’attività lavorativa di non ricevere un trattamento deteriore rispetto agli altri individui in ragione, tra le altre cose, della sua età [31]. Per un altro esempio ancora, si pensi al caso Melki e Abdeli, nel quale veniva in considerazione l’art. 67 TFUE, nella parte in cui prevede che l’Unione europea «garantisce che non vi siano controlli sulle persone alle frontiere interne» [32]. In Melki e Abdeli la Corte accertava l’esistenza di un conflitto fra l’art. 67 TFUE e l’art. 78 del codice di procedura penale francese, il quale stabiliva che «[i]n una zona compresa tra la frontiera terrestre della Francia con gli Stati parti della convenzione firmata a Schengen il 19 giugno 1990 ed una linea tracciata a 20 chilometri dalla stessa […] può essere parimenti controllata l’identità di qualsiasi persona […] al fine di verificare il rispetto degli obblighi di legge di possedere, portare con sé ed esibire i titoli e documenti». [continua ..]


IV. Il conflitto normativo atipico quale espressione della prassi minoritaria.

Non tutti i conflitti normativi risolti dalla Corte di giustizia sulla base della dottrina del primato sono però sussumibili nel modello tipico. Vi sono dei casi nei quali la Corte sembra avere applicato la dottrina del primato per risolvere un conflitto fra norme nazionali e norme europee non idonee a produrre effetti diretti. Taluni esempi possono aiutare a comprendere questo singolare fenomeno. Il caso più noto è indubbiamente quello della sentenza Mangold [34]. In tale circostanza si trattava, tra le altre cose, di interpretare l’art. 6 della direttiva 2000/78/CE, il quale prevede il divieto di discriminazione dei lavoratori in base all’età e annovera, tra le fattispecie discriminatorie, «la definizione di condizioni speciali di accesso all’occupazione [per] i lavoratori anziani […] onde favorire l’inserimento professionale o assicurare la protezione degli stessi». Il giudice del rinvio chiedeva alla Corte di giustizia di interpretare tale disposizione per comprendere se fosse con essa compatibile una norma tedesca che, dopo avere sancito il generale divieto di concludere contratti di lavoro a tempo determinato, stabiliva la libertà di stipulare siffatta tipologia di contratti con lavoratori che avessero più di 52 anni [35]. L’accertamento della compatibilità tra le due norme non comportava difficoltà e la Corte decretava che l’art. 6 della direttiva 2000/78/CE senz’altro ostava ad una norma, quale quella tedesca in oggetto, che prevedesse una discriminazione tra i lavoratori in base all’età [36]. Più complessa si rivelava invece l’identificazione delle conseguenze di tale incompatibilità. Le norme della direttiva 2000/78/CE non potevano produrre effetti diretti giacché, al tempo dei fatti di causa, il termine per la sua attuazione non era ancora spirato: le norme della direttiva 2000/78/CE non potevano, dunque, comportare l’inapplicabilità di alcuna norma nazionale con esse in conflitto [37]. La Corte peraltro rilevava come il principio di non discriminazione, a ben vedere, non trovasse la sua fonte nell’art. 6 della direttiva 2000/78/CE, bensì «in vari strumenti internazionali e nelle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri»: esso costituiva, per tanto, un principio generale del diritto [continua ..]


V. Il conflitto normativo atipico nelle pronunce recenti.

In effetti, è proprio questo sistema concettuale che sembra presupposto dalla Corte di giustizia inTaricco, in M.A.S. e M.B. ed in Kolev. Invece che discostarsi dall’impianto di Simmenthal, e dichiarare l’inapplicabilità di una norma nazionale in conflitto con una norma europea non direttamente efficace, tali pronunce ben potrebbero rappresentare degli esempi di soluzione, da parte della Corte, di un conflitto normativo atipico di grande interesse, sia teoricamente che per ciò che concerne le sue conseguenze pratiche. Come si ricorderà, in Taricco, in M.A.S. e M.B. ed in Kolev la Corte di giustizia ha indicato come l’art. 325 TFUE ponga in capo agli Stati un obbligo di risultato preciso ed incondizionato, costituito dall’adozione di misure effettive e dissuasive che sanzionino le condotte di frode fiscale in materia di IVA: l’art. 325 TFUE impone dunque agli Stati di emanare una normativa nazionale di sua esecuzione [65]. Ebbene, proprio l’esistenza di una normativa nazionale di esecuzione del­l’art. 325 TFUE sembra aver avuto un rilievo nell’iter che ha condotto la Corte di giustizia a riconoscere a tale disposizione la possibilità di produrre gli effetti tipicamente prodotti dalle norme direttamente efficaci come, ad esempio, quello di rendere inapplicabili le norme nazionali con esse in conflitto. La Corte ha dapprima individuato la normativa nazionale di esecuzione dell’art. 325 TFUE e, poi, ne ha valutato l’adeguatezza. In Taricco ed in M.A.S. e M.B. la Corte di giustizia ha identificato la normativa italiana di esecuzione dell’obbligo di cui all’art. 325 TFUE negli artt. 2 e 8 del d.lgs. 74/2000. Riferendosi a tali disposizioni, la Corte ha chiarito che «la normativa nazionale prevede sanzioni penali per […] la costituzione di un’asso­ciazione per delinquere allo scopo di commettere delitti in materia di IVA nonché una frode nella medesima materia per vari milioni di euro», che «simili reati costituisc[o]no casi di frode grave che ledono gli interessi finanziari dell’Unione» ed ha, poi, specificato che non vi erano «dubbi sul carattere dissuasivo, in sé, delle sanzioni penali indicate» [66]. In Kolev, invece, la normativa di esecuzione dell’obbligo posto dall’art. [continua ..]


VI. Conclusioni.

L’indagine svolta sinora sembra prospettare un risultato interessante sotto molteplici profili. In primo luogo, essa sembra dimostrare che, sulla base della prassi della Corte di giustizia, sia possibile già da tempo ricostruire la dottrina degli effetti diretti anche in maniera difforme da come tradizionalmente fatto. Non soltanto sarebbe corretto affermare che una norma europea dal contenuto chiaro, preciso ed incondizionato, che conferisca posizioni giuridiche perfette ai privati, possa produrre effetti diretti. I casi esaminati dimostrano che il carattere della diretta efficacia pertenga, oltre che alle singole norme, anche ai sistemi normativi. Tali pronunce paiono cioè dimostrare che talune costruzioni giuridiche composte da due norme, le quali sono l’una esecutiva del­l’altra, allorché presentino nel loro complesso un contenuto chiaro, preciso, incondizionato e tale da produrre in capo ai privati posizioni soggettive perfette, possano produrre effetti diretti. In secondo luogo, la recente giurisprudenza inaugurata con la sentenza Taricco sembra provocare un’evoluzione di non poco conto nella configurazione della dottrina degli effetti diretti. Mai invero, prima del 2015, la capacità di (co-)produrre effetti diretti era stata riconosciuta dalla Corte in capo a delle norme nazionali. Dalla pronuncia Taricco in poi, la Grande Sezione della Corte di giustizia ha invece ammesso che anche una norma nazionale, qualora dia corretta esecuzione ad una norma europea non direttamente efficace, possa con essa saldarsi in un sistema normativo produttivo di effetti diretti. In questo senso, Taricco ha rappresentato una svolta nella elaborazione della dottrina degli effetti diretti. Tale innovazione potrebbe senz’altro creare sconcerto nel giurista. La dottrina degli effetti diretti, com’è noto e come si è ricordato in apertura del presente lavoro, ha senz’altro accresciuto l’effettività delle norme europee a scapito delle norme nazionali che ne avessero ridotto, o impedito, l’efficacia. Ecco perché potrebbe apparire improprio interpretare le sentenze Taricco, M.A.S. e M.B. e Kolev nel senso che in esse sia sancita la possibilità, per le norme nazionali, di partecipare della diretta efficacia del diritto dell’Unione. Eppure, si tratterebbe di un’impressione errata [continua ..]


NOTE