Il Diritto dell'Unione EuropeaEISSN 2465-2474 / ISSN 1125-8551
G. Giappichelli Editore

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L'autonomia procedurale dei giudici nazionali nella giurisprudenza della Corte di giustizia dell'Unione Europea (di Celestina Iannone, Direttrice della Direzione della Ricerca e Documentazione della Corte di giustizia dell’Unione.)


Il principio di autonomia procedurale svolge un ruolo cardine nella protezione giurisdizionale dei diritti conferiti ai singoli dall’ordinamento dell’Unione. Tale principio ha permesso infatti di garantire un controllo efficace e capillare del rispetto delle norme europee, da parte dei giudici degli Stati membri. Se il riconoscimento dell’effetto diretto delle norme di diritto dell’Unione, enunciato dalla sentenza Van Gend and Loos, ha costituito un’investitura dei giudici nazionali nella funzione di controllo giurisdizionale, l’autonomia procedurale ha infatti svolto la funzione di “spina dorsale” del sistema, ponendosi come una necessità strutturale per garantire l’invocabilità e l’applicazione delle norme europee a livello nazionale. L’autonomia procedurale non è però assoluta, la Corte ne ha delineato i confini enunciando le due condizioni della equivalenza e della effettività, che fungono da parametri di riferimento per i giudici nazionali. Il Trattato di Lisbona, che ha consacrato il diritto fondamentale alla protezione giurisdizionale effettiva, in particolare con l’art. 47 della Carta, non ha ridimensionato l’importanza della funzione dell’autonomia procedurale. Al contrario, in assenza di regole comuni, i giudici nazionali continuano ad essere tenuti a definire e scegliere gli strumenti processuali interni atti a garantire la protezione efficace dei diritti conferiti dall’ordinamento dell’Unione.

Procedural Autonomy of National Courts in the Case-Law of the Court of Justice of the European Union

The principle of national procedural autonomy is central to the judicial protection of individuals’ rights under EU law. It ensures compliance with EU law through an effective and comprehensive judicial review conducted at national level. Procedural autonomy thus serves as an indispensable corollary to the doctrine of direct effect. It is not, however, absolute. The Court of Justice has qualified the principle through the twin conditions of equivalence and effectiveness. Moreover, the fundamental right to effective judicial protection, as enshrined in the Treaty of Lisbon, in particular in Art. 47 of the Charter, has not diminished the systemic importance of procedural autonomy. On the contrary, in the absence of common rules, national courts are still required to define and select those national procedural measures best suited to safeguarding the effective protection of EU law rights.

SOMMARIO:

I. Introduzione - II. Un’autonomia “funzionale”: i principi di equivalenza e di effettività - III (segue). Il principio di equivalenza - IV (segue). Il principio di effettività - V. Il principio di effettività alla luce della giurisprudenza sugli artt. 19 TUE e 47 della Carta dei diritti fondamentali - VI. Conclusioni - NOTE


I. Introduzione

L’art. 19 TUE, che concretizza il valore dello Stato di diritto su cui si fonda l’Unione Europea ai sensi dell’art. 2 TUE, prevede che la Corte di giustizia è investita della missione di garantire «il rispetto del diritto nell’interpretazione e nell’applicazione dei trattati» (par. 1) e che gli Stati membri devono assicurare una «tutela giurisdizionale effettiva» dei diritti riconosciuti dall’ordinamento giuridico dell’Unione (par. 2). Spetta infatti agli Stati membri garantire, nei rispettivi territori, l’applicazione e il rispetto del diritto dell’Unione. Come sottolineato da Pierre Pescatore nel lontano 1972, l’integrazione europea si caratterizza per la “centralità” del potere legislativo e per la struttura “decentrata” delle funzioni di esecuzione ed anche di controllo [1]. In tale sistema decentrato, spetta non solo alla Corte ma anche al giudice nazionale garantire il rispetto del diritto dell’Unione, mediante un controllo diffuso sull’applicazione corretta delle norme di tale ordinamento. Lo sviluppo dell’integrazione europea ha potenziato quello che Joël Rideau definì “il ruolo comunitario degli Stati membri” [2]: una collaborazione che può assumere forme e contenuti variabili in relazione al livello di integrazione europea. In tale contesto, la funzione dei giudici nel controllo del­l’ap­plicazione del diritto dell’Unione è quella di garantire il rispetto delle norme di tale ordinamento non solo da parte dei soggetti privati ma anche, e soprattutto, da parte dei soggetti pubblici nazionali. Le procedure giudiziarie interne assumono un ruolo fondamentale nel sistema integrato perché sono le sole che permettono ai singoli di far valere le violazioni del diritto del­l’Unione da parte degli organismi pubblici. Al giudice è conferita quindi la competenza di garantire la piena efficacia di tale diritto nell’ordinamento interno. In effetti, l’effetto diretto e il primato, sanciti dalle sentenze Van Gend & Loos [3], Costa [4] e Simmenthal [5], già negli anni ’60 e ’70, costituiscono una vera investitura dei giudici nazionali quali garanti della corretta applicazione del diritto dell’Unione. Sono dunque gli stessi giudici nazionali, quali giudici [continua ..]


II. Un’autonomia “funzionale”: i principi di equivalenza e di effettività

L’autonomia procedurale dei giudici nazionali non è però assoluta. È infatti indubbio che esiste una “tensione” tra i principi del primato e dell’effetto diretto del diritto dell’Unione, da un lato, e l’autonomia procedurale nazionale, dall’altro. Nel tempo sono state enunciate e interpretate dalla giurisprudenza della Corte di giustizia le condizioni che permettono di conciliare tali principi. È stato quindi necessario elaborare dei criteri che possano in qualche modo “bilanciare” le contrapposte esigenze nazionali e comuni [1]. Tuttavia, la forza dell’impatto del diritto dell’Unione nei regimi nazionali pone un’esigenza di adattamento la cui intensità resta variabile in funzione del livello di armonizzazione, della diversità dei sistemi nazionali e della circostanza che le regole interne sono concepite per finalità diverse da quelle proprie delle norme europee. Così, per evitare il rischio che le regole degli Stati membri impediscano al diritto dell’Unione di espletare i suoi effetti e possano mettere a rischio la sua uniforme applicazione a causa della diversità delle norme nazionali [2], la Corte, sin dalla sentenza Rewe, del 1976, ha subordinato l’applicazione autonoma delle regole procedurali interne a due condizioni: i principi di equivalenza e di effettività [3]. Secondo tali principi, le regole di procedura applicate ai ricorsi intesi a garantire la tutela dei diritti spettanti ai singoli in forza del diritto del­l’Unione non devono essere meno favorevoli di quelle che riguardano ricorsi analoghi di natura interna (principio di equivalenza) [4], né devono rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti da tale ordinamento (principio di effettività) [5]. Nouvel essai… La lettura delle conclusioni dell’Avvocato generale Warner nella causa Rewe aiuta a comprendere i problemi sottesi al riconoscimento dell’au­tonomia procedurale e che hanno condotto all’elaborazione delle due condizioni in esame. In tale causa, le parti nella controversia principale rilevavano un possibile contrasto tra la nozione di autonomia procedurale ed il principio del primato del diritto comunitario, oggi dell’Unione. Secondo le ricorrenti, ammettere che si applichi il diritto interno alle [continua ..]


III (segue). Il principio di equivalenza

(Segue). La condizione dell’equivalenza rappresenta una derivazione del più generale principio di non discriminazione [1]. Infatti, il principio di equivalenza richiede che una norma processuale nazionale si applichi indistintamente alle azioni fondate sulla violazione del diritto interno e a quelle basate sulla violazione del diritto dell’Unione «aventi oggetto e causa analoghi»  [2]. Il controllo del rispetto di tale principio è volto a «verificare se il procedimento che contiene la norma controversa, con il quale si persegue il soddisfacimento di una pretesa riconosciuta dal diritto comunitario, sia eventualmente più sfavorevole rispetto a un procedimento similare, con il quale si persegue il soddisfacimento di una pretesa analoga fondata sul diritto nazionale» [3]. Tale esame è di pertinenza del giudice nazionale, che è il solo a disporre di una conoscenza approfondita e completa delle norme procedurali interne [4]. Egli dovrà verificare se le modalità procedurali destinate ad assicurare, in diritto interno, la tutela dei diritti attribuiti ai singoli dal diritto dell’Unione siano conformi a tale principio. Tuttavia, come dimostra la giurisprudenza in materia, la Corte, in risposta a specifici quesiti pregiudiziali, può essere indotta inevitabilmente a compiere delle valutazioni e ad analizzare essa stessa il diritto nazionale, anche nel caso in cui un tale confronto possa rilevarsi altamente difficoltoso. In particolare, riguardo a tale condizione, risulta complesso determinare se l’azione relativa alla violazione del diritto dell’Unione sia “sufficientemente simile” all’azione relativa alla violazione del diritto nazionale. Al riguardo, la Corte ha indicato che il giudice nazionale deve, a tale titolo, verificare le analogie tra i ricorsi dal punto di vista del loro oggetto, della loro causa e dei loro elementi essenziali. Un tale giudizio deve tener conto della collocazione della norma nazionale nel complesso delle regole di procedura interne ed in particolare delle caratteristiche proprie della procedura e dello svolgimento di tale processo [5]. Le difficoltà eventualmente connesse a una tale valutazione sono state chiaramente illustrate nella sentenza Transportes Urbanos [6] del 2010. In tale causa, la società Transportes Urbanos propose un’azione amministrativa di [continua ..]


IV (segue). Il principio di effettività

(Segue). La seconda condizione che riguarda l’esercizio dell’autono­mia procedurale dei giudici nazionali è quella dell’effettività delle modalità procedurali applicate: tali modalità non devono rendere “praticamente impossibile” o “eccessivamente difficile” la tutela dei diritti conferiti dall’ordi­namento dell’Unione. Il principio di effettività nasce dunque dall’e­si­genza di conferire una tutela adeguata a tali diritti. Anche il test di effettività spetta di regola al giudice nazionale e la Corte ha nel tempo definito alcuni criteri per effettuare questa valutazione. Esso riguarda non solo l’accesso al giudice e dunque l’esistenza stessa del diritto al ricorso e le condizioni di ammissibilità dello stesso, ma altresì tutte le modalità in cui si espleta il processo, come le regole applicate ai diritti di difesa, alla rappresentanza delle parti, alle misure istruttorie, ai procedimenti provvisori e esecutivi. Inoltre il test non riguarda solo l’impossibilità del pieno esercizio del diritto ma, più diffusamente, tutte le restrizioni che depauperano la portata della tutela giurisdizionale dei diritti riconosciuti dalle norme europee. Nelle prime cause in materia, come mostra la sentenza Rewe, la Corte di giustizia ha adottato un approccio prudente e la verifica del rispetto del principio di effettività “appare caratterizzata da una particolare indulgenza” nei confronti delle misure interne [1]. Secondo questo primo orientamento, la Corte ha generalmente riconosciuto compatibile con il diritto dell’Unione le regole nazionali relative ai termini di ricorso, fondandosi sul principio della certezza del diritto. In altri ambiti, la Corte ha assunto una posizione meno neutrale. Così, ad esempio, ha considerato incompatibili col diritto dell’U­nione le regole nazionali sulle condizioni di prova che avevano l’effetto di rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile ottenere il rimborso di tributi riscossi in contrasto col diritto dell’Unione. In particolare, nella nota sentenza San Giorgio [2] del 1983, è stato dichiarato che una norma nazionale che subordina il recupero dell’importo dei tributi, riscossi dal­l’amministrazione in violazione del diritto dell’Unione, alla produzione della [continua ..]


V. Il principio di effettività alla luce della giurisprudenza sugli artt. 19 TUE e 47 della Carta dei diritti fondamentali

La questione che la dottrina si è posta nell’ultimo decennio è come si concilia la “condizione dell’effettività” dell’autonomia procedurale dei giudici nazionali con l’art. 19, par. 1, comma 2, TUE e con l’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea [1]. Come è stato in precedenza ricordato, l’art. 19 TUE codifica e rinforza l’obbligo dei giudici nazionali di garantire il controllo della corretta applicazione delle norme del diritto dell’Unione, consacrando formalmente il ruolo di giudici “comuni” del diritto dell’Unione [2]. Inoltre, ai sensi dell’art. 47 della Carta, ogni individuo ha il diritto alla protezione giurisdizionale effettiva dei diritti a lui conferiti dalle norme dell’Unione. Tale principio è stato qualificato come principio generale del diritto dell’Unione [3], derivante dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri e sancito dagli artt. 6 e 13 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Ed è in questo contesto giuridico che va inquadrato oggi il rapporto tra il principio di autonomia procedurale e il principio di tutela giurisdizionale effettiva. La questione è dunque se il riconoscimento della tutela giurisdizionale effettiva – cui corrisponde un dovere degli Stati membri – al rango di principio generale dell’ordinamento giuridico dell’Unione, codificato nel diritto primario, incida sulla portata dell’autonomia procedurale degli Stati membri ed in particolare sul principio di effettività e se il principio di effettività ed il principio di tutela giurisdizionale effettiva coincidano oppure l’uno sia sovraordinato all’altro [4]. Questo tema è stato affrontato dapprima nelle conclusioni degli avvocati generali e poi nelle sentenze della Corte di giustizia. Già nel 2013, l’Avvocato generale Jääskinen, dopo aver ribadito che il principio di effettività: «obbliga i giudici degli Stati membri ad assicurare che i mezzi di ricorso e le norme processuali nazionali non rendano in pratica impossibile o eccessivamente difficile la proposizione di azioni fondate sul diritto dell’Unione», precisa che esso «deve essere riconsiderato alla luce dell’articolo 19, paragrafo 1, TUE, introdotto dal Trattato di [continua ..]


VI. Conclusioni

Il principio di autonomia procedurale ha svolto un ruolo cardine nella protezione giurisdizionale dei diritti conferiti ai singoli dall’ordinamento dell’Unione. Tale principio, sin dagli albori della Comunità europea, ha permesso infatti di garantire un controllo, da parte del giudice nazionale, efficace e capillare del rispetto delle norme europee. In effetti, se il riconoscimento dell’effetto diretto delle norme di diritto dell’Unione, enunciato dalla sentenza Van Gend and Loos del 1963, ha costituito un’investitura dei giudici nazionali nella funzione di controllo giurisdizionale, l’autonomia procedurale ha, in un certo senso, svolto la funzione di “spina dorsale” del sistema, ponendosi come una necessità strutturale per garantire l’invocabilità e l’applicazione delle norme europee a livello nazionale. L’investitura dei giudici nazionali comporta infatti un obbligo positivo che la Corte ha definito, sin dalla sentenza Luck del 1968, come: “il potere […] di applicare, tra i vari mezzi offerti dall’ordinamento interno, quelli che appaiono [ai giudici come i] più appropriati onde tutelare i diritti soggettivi attribuiti dal diritto comunitario” [1]. In virtù dell’autonomia procedurale, il giudice è quindi responsabile della scelta delle regole e delle misure procedurali idonee a garantire la piena protezione dei diritti riconosciuti dalle norme di diritto dell’Unione. Con le sentenze Rewe e Comet del 1976, la Corte ha inoltre delineato i confini di tale autonomia enunciando le due condizioni della equivalenza e della effettività, che fungono da parametri di riferimento per i giudici nazionali. Il Trattato di Lisbona, il quale, con l’art. 19 TUE, ha “codificato” il ruolo centrale di controllo di tali giudici e, con l’art. 47 della Carta, ha consacrato il diritto fondamentale alla protezione giurisdizionale effettiva, non ha ridimensionato l’importanza della funzione dell’autonomia procedurale. In tale contesto, la giurisprudenza recente dimostra che la Corte continua a ricorrere ai due parametri della equivalenza e della effettività. Sulla base di tali principi, anziché limitare i poteri dei giudici nazionali, la Corte ha di fatto legittimato il ricorso a tutte le scelte procedurali possibili che consentano ai giudici di svolgere pienamente il loro [continua ..]


NOTE