Il presente articolo intende fornire una compiuta analisi dei principi di effettività e di equivalenza, i quali orientano l’esercizio dell’autonomia procedurale spettante agli Stati membri con riguardo alla tutela di situazioni giuridiche soggettive di derivazione comunitaria. Essa, muovendo dalla casistica giurisprudenziale della Corte di giustizia, giunge alla conclusione che quand’anche si parli di autonomia in termini procedurali, gli Stati sono “autonomi” nei “limiti” fissati dai principi di equivalenza ed effettività, i quali a loro volta rispondono al “limite” ad essi sovraordinato di garantire sempre e comunque l’attuazione effettiva del diritto dell’Unione europea.
ABSTRACT
This article aims to provide a complete analysis of the principles of effectiveness and equivalence that guide the exercise of the procedural autonomy of the Member States with regard to the protection of subjective legal situations under European Union law. It starts from the case law of the Court of Justice to come to the conclusion that even when it comes to autonomy in procedural terms, States are “autonomous” within the “limits” set by the principles of equivalence and effectiveness, which in turn are subject to the superordinate “limit” to guarantee the effective implementation of European Union law always and in any case.
KEYWORDS
Procedural autonomy – Principles of effectiveness and equivalence – Right to effective judicial protection
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I. L'effettività dell’ordinamento dell'Unione europea e della tutela giurisdizionale - II. Le modalità procedurali dei ricorsi a tutela di situazioni giuridiche soggettive di derivazione comunitaria - III. (Segue). Il principio di equivalenza tra parità di trattamento dei ricorsi e non discriminazione - IV. (Segue). Il principio di effettività tra il livello di tutela nazionale e lo standard minimo di protezione UE - V. Sull'applicazione dei principi di equivalenza e di effettività nei rapporti tra la Carta dei diritti fondamentali e la Convenzione europea dei diritti dell'uomo - VI. Il modus operandi dell'autonomia procedurale nella casistica giurisprudenziale europea - VII. Conclusioni - NOTE
Come è noto la Corte di giustizia e il giudice nazionale – anche definito “giudice comune” o “naturale” del diritto UE – concorrono a rendere effettivo nel suo complesso il sistema giuridico su cui si fonda l’Unione europea [1], intesa quale “Comunità di diritto” [2] o ordinamento giuridico di nuovo genere in ambito internazionale che riconosce come soggetti non soltanto gli Stati membri, ma anche i singoli individui [3]. Ne discende un sistema di tutela decentrata in cui, specie nella patologia dei rapporti giuridici è, anzitutto, il giudice interno a garantire il rispetto del diritto dell’Unione [4] alla stregua di un controllo diffuso, in sinergia con le indicazioni rese dalla Corte di giustizia [5]. I confini di siffatta interazione sono definiti ad opera dei giudici di Lussemburgo sin dai casi Rewe [6] e Comet [7] del ’76, nei quali si afferma il principio di autonomia procedurale nei seguenti termini: «in assenza di provvedimenti di armonizzazione, i diritti attribuiti dalle norme comunitarie devono essere esercitati, dinanzi ai giudici nazionali, secondo le modalità stabilite dalle norme interne» [8]. Laddove, dunque, l’ordinamento europeo non prevede norme volte ad armonizzare le disposizioni legislative, regolamentari o amministrative dei diversi Stati membri e non introduce, quindi, autonome e specifiche forme di tutela per i diritti di derivazione comunitaria rispetto a quelle già proprie degli ordinamenti nazionali, è rimessa ai singoli Stati [9] la scelta dei rimedi necessari a garantire una tutela giurisdizionale effettiva (oggi ex art. 19, par. 1, co. 2, TUE) [10] – quale principio generale del diritto dell’Unione discendente dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri [11] e sancito dagli artt. 6 e 13 della CEDU, nonché dall’art. 47 [12] della Carta dei diritti fondamentali [13] – ponendo, al contempo, come limite, il rispetto dei principi di equivalenza ed effettività di cui diremo a breve. Ciò si traduce in una garanzia di immediata tutela per i singoli, la quale, tuttavia, sconta il limite della diversità degli ordinamenti giuridici, da cui deriva un oggettivo problema di uniformità e, per [continua ..]
Come anticipato, secondo giurisprudenza costante, in assenza di una normativa processuale dell’Unione, spetta, in linea di principio, agli Stati membri, nel contesto della propria autonomia procedurale, prevedere norme applicabili ai ricorsi [23]. A tal uopo, in ossequio al principio di leale cooperazione, le modalità procedurali intese a garantire la tutela dei diritti spettanti ai singoli in forza del diritto dell’Unione e del suo effetto diretto [24] non devono essere meno favorevoli di quelle riguardanti ricorsi analoghi di diritto interno (principio di equivalenza), né rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione (principio di effettività) [25]. Dunque, affinché uno Stato membro possa far valere la sua autonomia processuale, nei casi disciplinati dal diritto UE, devono essere cumulativamente rispettati ambo i principi [26]. Questi ultimi – si ripete – esprimono l’obbligo generale per i Paesi dell’Unione di garantire la tutela giurisdizionale dei diritti di fonte comunitaria [27] «nelle migliori condizioni possibili» [28] e valgono sia sul piano della designazione dei giudici competenti [29] (cd. autonomia istituzionale), che per quanto concerne il modus procedendi delle azioni giudiziarie [30] (cd. autonomia procedurale), le quali, tra l’altro, devono essere interpretate dai giudici nazionali in modo da perseguire l’obiettivo di una tutela giurisdizionale effettiva [31].
Nello specifico, in base al principio di equivalenza, gli individui che fanno valere diritti conferiti dall’ordinamento dell’Unione non devono essere svantaggiati rispetto a quelli che invocano situazioni giuridiche soggettive nazionali [32]. Tale principio richiede, pertanto, un accertamento interno, avente ad oggetto la normativa dello Stato membro e, dunque, la verifica dell’assenza di discriminazione tra i rimedi apprestati da quest’ultima nei casi di violazione della normativa nazionale e di quelli previsti a tutela di prerogative europee. La ratio ivi sottesa è quella di evitare che posizioni soggettive di derivazione europea siano tutelate secondo forme e modalità meno efficaci rispetto a ricorsi analoghi di natura interna. Ciò non significa, tuttavia, che gli Stati siano per ciò stessi obbligati ad estendere le proprie disposizioni processuali più favorevoli a tutte le azioni volte a tutelare situazioni giuridiche soggettive fondate sul diritto UE [33], ma semplicemente che una norma processuale interna vada applicata qualora ne sussistano le condizioni, indifferentemente tanto ad azioni fondate sul diritto dell’Unione, quanto a reclami che tutelino posizioni di diritto interno [34]. Tale principio si risolve, in sostanza, nella dimensione processuale del più generale canone di non discriminazione [35], atto qual è, ad assicurare una parità di trattamento tra diritti di fonte nazionale e diritti di derivazione comunitaria. Secondo giurisprudenza costante, il suo rispetto richiede, dunque, un’applicazione indistinta della disciplina dei ricorsi [36], e non già l’equivalenza delle norme processuali nazionali applicabili a contenziosi di natura diversa [37]. A tal uopo, dunque, è necessario verificare se un ricorso interno possa essere considerato simile ad un ricorso finalizzato alla tutela del diritto dell’Unione [38], alla stregua di un’analisi sostanziale, tenendo conto dell’oggetto, della causa e degli elementi fondamentali [39]. Identificate, quindi, le azioni o procedure comparabili [40], il raffronto tra le stesse spetta di regola al giudice nazionale, il quale dispone di una conoscenza diretta delle modalità procedurali applicabili [41] per garantire, nel diritto interno, la tutela dei diritti attribuiti ai singoli [continua ..]
Ulteriore limite alla discrezionalità degli Stati è posto dal principio di effettività, in ordine al quale le norme di diritto interno, rilevanti sul piano processuale, non devono rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile la tutela dei diritti spettanti in forza del diritto UE, assicurando, di fatto, una garanzia minima ed adeguata, il che favorisce, altresì, l’implementazione e l’applicazione delle norme UE a livello nazionale. Esso, dunque, a differenza del principio precedente – che si esaurisce in una mera verifica della normativa interna – richiede una comparazione tra il livello di tutela offerto dall’ordinamento nazionale e lo standard minimo di tutela da garantire in maniera uniforme sul piano europeo [47]. Ove si riscontrassero difformità al riguardo – precisa la Corte nel caso Borelli – occorre pur sempre assicurare un sindacato giurisdizionale dei diritti conferiti da norme europee, anche quando non è previsto alcun rimedio nell’ordinamento nazionale in questione [48]. Ecco, dunque, che mentre nelle ipotesi in cui sia violato il principio di equivalenza, il compito del giudice nazionale consiste nel tutelare i diritti vantati dai singoli in funzione dell’ordinamento europeo facendo ricorso a disposizioni giuridiche interne, nei casi in cui si prospetti, invece, una violazione del principio di effettività, il giudice svolge un’azione più complessa, procedendo alla disapplicazione della norma processuale interna, o alla creazione ex novo in via interpretativa di una regola idonea a fornire adeguata tutela alla posizione di diritto vantata [49]. Al riguardo, infatti, se le norme procedurali nazionali rendessero praticamente impossibile o eccessivamente difficile la salvaguardia delle posizioni giuridiche soggettive di derivazione comunitaria, in un sistema decentrato di tutela qual è quello dell’UE, ciò svilirebbe l’essenza stessa dell’ordinamento europeo [50]. Ciò posto anche il test di effettività spetta di regola al giudice nazionale [51], il quale tiene sostanzialmente conto del ruolo della norma processuale interna nell’insieme del procedimento, dello svolgimento e delle peculiarità dello stesso, dinanzi ai diversi organi giurisdizionali nazionali [52] e prende in considerazione, se necessario, [continua ..]
In tale contesto degno di nota è, altresì, l’interessante quesito, posto alla Corte [56], se i principi di equivalenza e di effettività sopra descritti vadano interpretati nel senso di obbligare il giudice nazionale ad estendere alle violazioni del diritto dell’Unione – e segnatamente alle lesioni del diritto fondamentale del ne bis in idem di cui all’art. 50 della Carta e 54 della Convenzione di applicazione dell’Accordo di Schengen (CAAS) [57] – un mezzo di impugnazione di diritto interno che, nel diverso caso di violazione della CEDU o di uno dei suoi protocolli, consente di ottenere la ripetizione di un procedimento penale conclusosi con una decisione nazionale passata in giudicato. Nel caso di specie, il giudice del rinvio evoca la possibilità che, una censura tratta dalla violazione di un diritto fondamentale garantito dalla CEDU persegua il medesimo obiettivo e abbia lo stesso fondamento di una censura tratta dalla violazione di un diritto garantito dalla Carta dei diritti fondamentali; ed inoltre, evidenzia che, in forza dell’art. 52, par. 3, della Carta, i diritti garantiti da quest’ultima presentano la medesima portata dei corrispondenti diritti garantiti dalla CEDU. Al riguardo la Corte di giustizia precisa, invece, le dovute differenze. A tal proposito rammenta che il diritto dell’Unione si caratterizza per il fatto di derivare da una fonte autonoma costituita dai Trattati, per il suo primato sul diritto degli Stati membri [58], nonché per l’effetto diretto di tutta una serie di disposizioni applicabili ai cittadini, nonché agli Stati stessi [59]. Al centro di tale costruzione giuridica si collocano i diritti fondamentali, quali riconosciuti dalla Carta – che, come è noto, ai sensi dell’art. 6, par. 1, TUE, ha lo stesso valore giuridico dei Trattati –, e il rispetto degli stessi costituisce un presupposto di legittimità degli atti dell’Unione, sicché non possono ammettersi misure incompatibili con i diritti medesimi [60]. Peraltro, la Corte ha statuito che, per quanto concerne il principio del ne bis in idem, sancito dall’art. 50 della Carta, tale disposizione dispiega effetto diretto [61], consentendo, dunque, ai singoli di far valere i propri diritti dinanzi a qualsivoglia autorità pubblica o giudice nazionale. Inoltre – [continua ..]
È, dunque, dall’analisi della variegata casistica giurisprudenziale che è possibile cogliere appieno il modus operandi dell’autonomia procedurale alla stregua degli esaminati principi [81]. Emblematico, in tal senso, è anzitutto il tema della menzionata responsabilità risarcitoria dello Stato per violazione del diritto UE sin dal noto caso Francovich [82]. Sul punto la Corte ha precisato che, fatto salvo il diritto al risarcimento, che si fonda direttamente sul diritto dell’Unione, è nell’ambito della normativa interna che lo Stato è tenuto a riparare le conseguenze del danno arrecato, restando inteso che le condizioni formali e sostanziali stabilite al riguardo non possono essere meno favorevoli di quelle relative ad analoghi reclami di natura interna, né tali da rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile la domanda risarcitoria [83]. Circa l’onere della prova, la Corte ha, ad esempio, evidenziato che, subordinare il diritto al risarcimento all’esistenza del carattere intenzionale del danno causato, equivale a sottoporre tale diritto ad una condizione che va al di là della violazione sufficientemente qualificata [84] del diritto dell’Unione, definita sin dalle cause riunite Brasserie du Pêcheur e Factortame III [85]. Oltretutto è contrario al principio di effettività imporre ai soggetti lesi di esperire sistematicamente tutti i mezzi di tutela giudiziaria a disposizione anche qualora ciò dovesse causare difficoltà eccessive [86] o comunque non essere loro ragionevolmente preteso [87]. Nello specifico, poi, è in materia di concorrenza che spetta all’ordinamento giuridico interno di ogni singolo Stato UE stabilire le modalità di esercizio del diritto di agire per il risarcimento del danno risultante da un’intesa o da una pratica vietata (art. 101 TFUE) [88] o da un abuso di posizione dominante (art. 102 TFUE), nel rispetto, altresì, dei principi di equivalenza e di effettività. Ad esempio, le norme nazionali che disciplinano la valutazione delle prove [89] e il grado di intensità delle stesse non devono rendere impossibile o eccessivamente difficile l’applicazione effettiva delle regole di concorrenza dell’Unione [90]. Al [continua ..]
La Corte di giustizia, come sopra evidenziato, riconosce quale condicio sine qua non dell’autonomia procedurale l’“assenza di armonizzazione”, ovvero di una disciplina processuale comunitaria in materia, che lasci spazio agli Stati sotto il profilo della tutela; al contempo, però, si premura di delinearne i confini, ancorando siffatta autonomia ai ben noti principi di equivalenza e di effettività. L’uno, in sostanza, impone che siano posti a “servizio” dell’Unione gli strumenti giuridici dell’ordinamento interno, a salvaguardia di situazioni soggettive equivalenti; l’altro esige, invece, una tutela agevole ed effettiva all’interno degli Stati, dei diritti spettanti in forza dell’UE. Tra gli stessi non esiste un rapporto gerarchico, ma entrambi operano cumulativamente sia a garanzia dei singoli che dell’Unione medesima, con il fine ultimo di assicurare l’effettività del diritto comunitario. L’intento dell’UE sembra, dunque, quello di raggiungere il più alto grado di effettività tramite la tutela dei diritti individuali. La casistica passata in rassegna, mostra poi come tali principi si atteggino diversamente a seconda dei settori in cui operano, “riempendosi di contenuto” solo alla stregua del caso concreto. Invero verrebbe da chiedersi se realmente possa parlarsi di autonomia procedurale visto che gli Stati sono “obbligati” ad applicare norme processuali interne idonee a garantire un’effettiva ed uniforme applicazione del diritto UE, tanto da dover procedere, in caso contrario, alla loro disapplicazione o, al limite, ad un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia. Del resto l’approccio dell’Unione sotto il profilo procedurale ha subito nel tempo delle variazioni. Inizialmente la Corte di giustizia – come attesta il caso Rewe del 1981 – ha lasciato ampio spazio al giudice nazionale, dichiarando al par. 44 che «il Trattato, nonostante abbia istituito un certo numero di azioni dirette che possono eventualmente venire esperite dai singoli dinanzi alla Corte di giustizia, non ha comunque inteso istituire mezzi di impugnazione esperibili dinanzi ai giudici nazionali, onde salvaguardare il diritto comunitario, diversi da quelli già contemplati dal diritto nazionale». In seguito, siffatto “spazio” è [continua ..]